2020: l’anno che ha distrutto le certezze della modernità

“La catastrofe peggiore che stiamo vivendo da un anno, con il coronavirus, forse lo capiamo solo ora, è quella affettiva: lacerazioni profonde, comportamenti innaturali che abbiamo dovuto assumere come quotidianità. Abbiamo abbandonato persone care sulla soglia di un ospedale da cui sono state inghiottite, senza la possibilità di rivederle più. Sono stati sbriciolati tutti quegli affetti non inclusi nella regolarità sociale: addio ai “non congiunti”, travolti dal pericolo e dalla paura. Abbiamo imparato a guardare con sospetto i vicini, amici fino all’altro giorno…”

L’imprevedibile esplosione di una pandemia mondiale ha rievocato incubi ormai dimenticati

Emanuela Monego*

Non sono mai sorridenti gli occhi che sovrastano le mascherine. Forse tentavano di esserlo all’inizio, al tempo degli arcobaleni e dei cori dal balcone, ma ora non ce la fanno. Sono peggio che spaventati, fissano il terreno perché, ormai lo sappiamo, è impossibile riconoscere la gente con due terzi della faccia coperta. Meglio cercare di capire dove mettiamo i piedi, risparmiandoci i saluti inutili; siamo un esercito di fantasmi che camminano nel vuoto senza incrociarsi.

Nessuno di noi avrebbe potuto supporre un futuro del genere: guardando i primi servizi dalla Cina sul virus devastante, alla fine del 2019, abbiamo provato un po’ tutti la rassicurante tranquillità che, davanti ad una catastrofe accaduta agli antipodi, ci fa esclamare: “Ma tanto è lontano!”. E invece la globalizzazione fa sì che non ci siano catastrofi lontane, annulla gli ostacoli geografici che un tempo fermavano le pestilenze: tutto arriva ovunque, più veloce del pensiero.

Rischi sottovalutati
È poco più di un’influenza”

È una colpa l’ottimismo? Sì, se non è fondato sulla conoscenza della minaccia e del pericolo. Altro che “Italia blindata”: non si può dimenticare la superficialità con cui il rischio, all’inizio, è stato sottovalutato, con certe celebri esibizioni di lavaggio delle mani e con gli inviti a non allarmarsi per “un’influenza un po’ più seria”. E del resto era proprio quello che volevamo sentirci dire: anche stavolta non occorre preoccuparsi.

Non è andato tutto bene: il dato macroscopico è il numero delle vittime, ad oggi in costante crescita, l’inarrestabile espandersi dei contagi e poi a ruota il disastro economico, la compressione delle libertà individuali, l’annichilimento dei contatti umani. Educati a credere che l’umanità godesse di certezze intoccabili e diritti indiscutibili, abbiamo perso nel giro di pochi giorni l’autodeterminazione, che davamo per scontata e che rende la vita degna di essere vissuta. Ma la catastrofe peggiore, forse lo capiamo solo ora, è quella affettiva: lacerazioni profonde, comportamenti innaturali che abbiamo dovuto assumere come quotidianità. Abbiamo abbandonato persone care sulla soglia di un ospedale da cui sono state inghiottite, senza la possibilità di rivederle più. Sono stati sbriciolati tutti quegli affetti non inclusi nella regolarità sociale: addio ai “non congiunti”, travolti dal pericolo e dalla paura. Abbiamo imparato a guardare con sospetto i vicini, amici fino all’altro giorno; abbiamo smesso di abbracciare i parenti più stretti in contatto con un mondo più ampio delle mura domestiche. L’abbraccio fa paura, provoca un brivido inconfessabile: la vita è stata sconvolta anche per chi è negativo al COVID 19.

Il “forse” come icona della fragilità umana

Lontani dall’esperienza di una guerra, non conoscevamo la frustrazione delle speranze collettive: non basta “volere” una cosa per realizzarla, bisogna sempre avere un piano alternativo per il peggio, cosa di cui, purtroppo, chi decide per noi non dispone. Non ci erano mai stati imposti limiti così duri: anche biasimando la disobbedienza, come si può continuare a tacitare il proprio senso critico, credendo a chi dice una cosa e la nega la settimana dopo come se nulla fosse? Come accettare previsioni e promesse annullate dall’evidenza dei fatti?

Ecco il problema cruciale: alle mani di chi ignora il comune buon senso non ci si affida con serenità. Pensiamo alla frequenza scolastica, accompagnata dall’ennesimo “andrà tutto bene”: quanto sarebbe stato meglio preparare durante l’estate una DAD seria, che unisse ai programmi dell’intero anno test e verifiche adeguati, piuttosto che lanciarsi nel balletto di turni e quarantene del tutto inaffidabili, visto che fra inizio dell’assenza, prenotazione del tampone, comunicazione dell’esito e disposizioni sanitarie diverse da Paese a Paese passano giorni in cui il virus viene diffuso.

Un umile “forse”, unito alle affermazioni smentite dai fatti, mitigherebbe almeno l’astio per le norme più faticose da rispettare. Un cauto “forse” dovrebbero usare i luminari della scienza, da cui abbiamo udito tutto e il contrario di tutto: sono umani, quindi fallibili anche nei vaticini entusiasti sul vaccino, che non può liberarci tutti in un attimo come la bacchetta magica delle fate. Il “forse” dovrebbe tornare, per tutti noi, ad esprimere la fragilità della condizione umana: quando si viveva meno e molto peggio di adesso, era palese la soggezione di tutti gli uomini, dal re all’ultimo dei mendicanti, al capriccio del destino; la convinzione di vincere sempre, subito e ad ogni costo è non solo errata, ma spocchiosa, urtante. Non sarà il biglietto per Marte a renderci invulnerabili, dobbiamo farcene una ragione. Magari sarebbe meglio imparare ad assaporare ogni attimo felice, rivalutando quello che prima non notavamo neppure, a cominciare dalla libertà di decidere dove vogliamo andare e con chi; a prevedere le conseguenze di ogni singolo gesto e soprattutto a lasciar parlare la nostra intelligenza, unica dote utile nelle calamità, piuttosto che pendere dalle conferenze stampa, dalle catene social o dalle opinioni dei VIP.

* Docente di scuola superiore, scrive da anni articoli e saggi di osservazione critica su dove stanno andando il costume e la società, con acutezza di analisi e di giudizio. Vive e lavora a Roma dove ha seguito e segue tantissimi studenti in lezioni di recupero e corsi di doposcuola. Dice dei cristalli di brina: “Sono belli ma pungono”.