Cosa ci insegna la Pasqua, il mistero della speranza umana

Abbiamo passato anche Pasqua, un’altra strana Pasqua, molto diversa da quelle che eravamo soliti vivere, nel risveglio della natura e nel sereno della primavera che si riaffaccia agli occhi, ma soprattutto nel cuore. Si direbbe che anche il clima, le giornate di sole, la temperatura mite abbiano fatto alleanza per attenuare la pesantezza di un’atmosfera che resta ammorbata dal virus variante con la sua scia di ombre, paure e tristezze varie.
Abbiamo appena passato il buio simbolico del Venerdì Santo, con David Maria Turoldo il quale già profeticamente ci ammoniva che in questo giorno si misura la fede, “quando non una eco risponde al Suo grido e a stento il Nulla dà forma alla tua assenza“. Volendo, è un po’ la metafora di questo tempo che deve ritrovare la normalità come traguardo di ripartenza; la fiducia, lacerata da tredici mesi di vita semiconfinata; la speranza, come ossigeno decisivo. La Pasqua, anche questa Pasqua recintata ci ha indicato quale strada percorrere per non vagolare nella foschia. C’è una dichiarata nostalgia di luce, coraggio, nuove aspettative, equilibrio, ottimismo, dopo un faticoso cammino su margini insidiosi.
Certo, non si sono potuti rivivere molti momenti, riti, passaggi che scandiscono da sempre il triduo pasquale. Posti distanziati nelle chiese, diventate più deserte e non solo per colpa della pandemia; niente processioni di popolo e tante altre usanze e abitudini. Ma la vera sfida di oggi chiama altrove e porta a segni e scelte più alte, cominciando dalla lotta all’indifferenza. Forte un’immagine di Papa Francesco: “Chi non guarda la crisi alla luce del Vangelo, si limita a fare l’autopsia di un cadavere“. Come possono nascere realtà rinnovate da un tessuto invecchiato, con un clero non più giovane e sotto il peso delle strutture?
Una volta chiesi al vescovo Giancarlo Maria Bregantini dove trovare motivi di speranza nonostante tutto. Mi rispose con un esempio tratto dalla civiltà contadina di famiglia. Volendo imparare come si pota la vite, suo fratello lo portò nel vigneto davanti a un bellissimo tralcio e gli domandò: lo tagliamo o lo lasciamo? Il vescovo era per salvarlo, il fratello lo tagliò spiegando: “Questo ha già dato frutto l’anno scorso, non può più darne“. E il filare alla fine si presentò povero, spoglio. Non bisogna però guardare alla vite in febbraio, ma in settembre. La lezione tradotta: il contadino deve dare all’albero la possibilità di crescere e produrre frutti. Dio fa così con noi, è il grande agricoltore della nostra vita, e così un genitore, un maestro, un prete, un vescovo, un giornalista. Dobbiamo sempre avere la certezza di far scorgere che la speranza può cominciare da un germoglio. Pasqua, per esempio.

Giuseppe Zois


Essenzialità della croce come messaggio di salvezza e di speranza: è posta in cima a una montagna, a sua volta simbolo di essenzialità estrema. (Foto: Luciano Colotti)

Segno

Figlio mio, posa per me,
sopra l’alto pianoro della montagna
i due tronchi robusti
che avevi tagliato al piede:
voglio farne la mia croce
lassù, dove il crinale
separa il mondo in due parti:
quella dell’ombra e quella della luce,
il versante a notte e quello a giorno,
i campi degli uomini e gli ontani selvatici.
Posali lassù, ne farò la mia croce,
segno fra le due parti.

Posali sull’erica
i tronchi nodosi:
quando imbrunirà il giorno
mi caricherò della croce,
andrò nella nera notte
lungo il filo pietroso della cresta,
perché mai più,
sotto il sole o sotto la luna,
ci sia versante a giorno o a notte
sulla terra.

Sergio Arneodo