Dalla parte degli insofferenti. E comunque l’uomo non sarà mai invulnerabile

Tutti condannano chi si ribella alle restrizioni anti-COVID: convinzioni sincere o puro opportunismo?

Prima, seconda, terza ondata… uno tsunami che fa capo a una logica, o una piena che non passa mai, solo sembra abbassarsi quando siamo arroccati nei nostri rifugi, per tornare a travolgerci appena ne usciamo? Non possiamo imbavagliare il nostro senso critico, la natura stavolta pare combattere una guerra infinita contro i nostri sforzi di imbrigliare la malattia: non diamo la colpa a chi si vorrebbe divertire, questa è l’ennesima prova del fatto che l’uomo non è e non sarà mai invulnerabile. Mentre combattiamo per protrarre quantitativamente la vita (tutti dobbiamo vivere il più a lungo possibile), stiamo perdendo la sua qualità: sopravviviamo male per paura di morire.

Il fondamentale ruolo dell’apparire

La nostra società, il cosiddetto “mondo occidentale”, è impregnata di individualismo, germogliato nell’antichità greca e rigogliosamente cresciuto attraverso secoli di filosofia ed evoluzione storica; per questo non siamo diventati sovietici o maoisti, perché è contrario alla nostra identità. I diritti del singolo sono anteposti al potere assoluto: Demarato di Sparta lo spiegò al re Serse già 2500 anni fa. Per l’individuo è essenziale autodeterminarsi e affermarsi interagendo con gli altri, attraverso canali di comunicazione in cui la sembianza, l’apparire (per negativo che possa sembrare) gioca un ruolo fondamentale; da questa rete di relazioni scaturisce il complesso mondo dei sentimenti collegati al rapporto col prossimo che plasma la nostra personalità.

Il COVID (scivolato fuori, ironia della sorte, dai confini di uno Stato totalitario come la Cina) sta devastando il nostro mondo, perché le misure per limitarne i danni cozzano contro ciò che rende gradevole la nostra vita. La catastrofe economica in atto è legata anche e soprattutto alla paralisi della vita sociale: a che servono una torta di compleanno o un costume di carnevale se è proibito festeggiare con gli altri? Perché comprare abiti eleganti, se nessuno ci riconosce per strada? Quale è l’utilità del trucco e della messa in piega, se il viso è coperto dalla mascherina?

Con il dovuto rispetto per le altrui costumanze, non siamo Yemeniti o Nordcoreani; l’ipotesi di prolungare tutto questo all’infinito spegne il desiderio di vivere, e chi non vive non si muove, non investe, non compra. La parola FINE, purtroppo, non si intravede neanche in sogno; mentre bus e metropolitane, nelle grandi città, si riempiono di gente accalcata in barba alle norme di contenimento, rinunciamo rassegnati a festeggiare con parenti e amici lauree, matrimoni, compleanni, abolendo la parte migliore della nostra esistenza in ossequio alle liti dei virologi, che a noi poveri diavoli sembrano ora profeti di salvezza, ora rabbiosi menagrami.

L’evasione, terapia anti-cattiveria

Non possiamo abbandonarci alle fobie da panico, come le (troppe) persone coperte dalla mascherina anche quando guidano la loro auto, sole e per giunta con i finestrini chiusi. Come si può amare un oggetto che impedisce alla voce di uscire, al sorriso di trasparire, che ci vieta di percepire il profumo delle mimose e dei dolci, che fa risaltare, sul viso di chi ha passato gli “anta”, solo le orribili zampe di gallina intorno agli occhi? Evviva i viottoli solitari, che permettono alla punta del naso di scivolare fuori… che liberazione! Tanto meno possiamo eliminare gli abbracci dal nostro mondo emotivo; ci sarà pure qualcuno che non ci regalerebbe il virus a cuor leggero, così come noi non lo regaleremmo a lui: sfruttiamo l’occasione, sia pure con coscienza. I momenti di evasione aiutano a non diventare paranoici e cattivi: l’esercizio della cattiveria contro il prossimo è l’esito naturale della frustrazione che deriva dallo sposare, integralmente e ad ogni costo, un credo comportamentale che il cuore rifiuta. Ci stiamo anche incattivendo, per paura di morire.

Sarebbe utile rileggere le pagine iniziali del Decameron di Boccaccio: nella Firenze trecentesca, devastata dalla Peste Nera, c’è ancora chi cerca un’oasi di serenità e di armonia allontanandosi dal caos e dalla morte per conservare le abitudini che rendono la vita degna di essere vissuta, anche se nessuno può essere certo della salvezza futura. Anche noi, magari solo per qualche minuto al giorno, proviamo ad unirci almeno mentalmente all’allegra brigata dei giovani fuggiaschi: la vita è breve e fragile, ma proprio per questo non possiamo rinunciare ai momenti felici, unici ricordi davvero importanti quando inevitabilmente, presto o tardi, tutto finisce.

Emanuela Monego