Davanti a un agghiacciante fratricidio. Prima colpevole: la mancanza della parola

Un fatto di cronaca che lascia sconvolti e muti: come e perché si può giungere ad un crimine tanto orrendo? Gli inquirenti indagano su cause e possibili moventi. In principio a tutto, come primo scatenante focolaio di rancore c’è l’assenza di dialogo che porta a un’atroce eliminazione del fratello.

Pietro De Luca*

Sarà la pandemia, sarà la corsa o anche il sorpasso per accedere alla vaccinazione, sarà la mascherina che tutti (?) indossiamo e che ci rende avari di parole, certa è una cosa: il fratricidio accaduto a Mongrassano (Cosenza), pare, non abbia registrato sufficiente spazio nelle note di commento che pure con prodigalità riserviamo ai fatti del giorno.
Della comunità di Mongrassano scriviamo: più che parole tra piccoli e grandi è calato il gelo, più che sospiri, lacrime, così come avviene quando l’equilibrio e la serenità sono lacerati da forti traumi.
L’accaduto: una figlia sta lasciando casa paterna per trasferirsi in città e prendere lavoro. Uno zio l’attende in strada per accompagnarla. Sbuca un’auto a tutta velocità da una traversa e investe l’uomo. L’autopsia saprà indicare se addirittura l’auto è passata e ripassata sul corpo riverso per terra. L’uomo caduto è fratello più grande dell’uomo alla guida.

Tutto comincia da un assordante silenzio

Di che storia può trattarsi? – ci domandiamo sconvolti. Verosimilmente di un dialogo inesistente. Il canovaccio lo conosciamo ed è quello della prima storia tra fratelli che abbiamo letto in tenera età. Caino e Abele non ci vengono presentati come due fratelli che parlano, meno ancora che dialogano, siedono a mensa, conversano. La prima volta che si fanno vicini, Caino uccide Abele. Abele, probabilmente non ha mai saputo perché Caino l’ha ucciso. Il lettore della Bibbia, invece, lo sa: Caino sta lasciando crescere dentro di sé un moto di invidia assai potente che sfocerà nella soppressione di Abele.
Se i due avessero parlato? – ipotizziamo noi. Probabilmente si sarebbero spiegati, forse Abele sarebbe riuscito a rendere capace Caino che la sua teoria era senza fondamento, che lui, Abele, si comportava nell’unica maniera che sapeva concepire in cuor suo. Se Caino avesse ascoltato? Poteva non condividere, poteva cominciare a pensare, poteva mutare pensiero, forse anche soluzione.
Tutto comincia dall’assenza della parola, dalla negazione del dialogo, dall’approfondimento di una visione che, invece, viene assunta per vera in dimensione unilaterale.

Se manca l’incontro dei pensieri con gli altri

Dirà la giovane di Mongrassano: con mio zio non c’è relazione amorosa, il mio legame è motivato dal fatto che sa comprendere i miei malesseri e disagi. Può verificarsi il caso che così accada tra congiunti, parenti e amici e non con il proprio genitore? L’esperienza ci dice che è possibile e le motivazioni possono essere molteplici. Solo sgomitolando la matassa di certi vissuti si può venirne a capo. E non è detto che si debbano trovare per forza delle colpe. Basta un malinteso, un asso preso per figura, una lucciola per lanterna. A volte è la vita stessa che contiene lontananze, scarti culturali, chiusure che fanno propendere per l’assunzione di tesi tutte da provare. E solo il dialogo è la medicina efficace per mettere ordine laddove si ipotizzi regnare un disordine insopportabile.
Forse parliamo tanto, forse parliamo troppo, o troppo in fretta diamo ali alle parole che si traducono in atteggiamenti, gesti o gesta che vanno in tutt’altra direzione. Innamorarsi dei propri pensieri e non farli mai incontrare con i pensieri dei propri simili è la sciagura più triste che può abbattersi su un uomo. È solo camminando accanto ai pensieri degli altri che dinanzi agli occhi possono aprirsi nuovi cammini. E anche nuove mete.
Perché non abbiamo commentato a sufficienza l’accaduto di Mongrassano?
Dio non voglia perché a certi fatti di sangue, quasi, stiamo facendo abitudine. Sarebbero troppi e noi siamo stanchi. Stanchi si può essere, ma questa non è una giustificazione. Piuttosto propendiamo per altro: siamo ormai troppo adusi nel riconoscere dalle prime battute di una cronaca di morte il nocciolo della questione. Qui non si è trattato di malavita o di ‘ndrangheta. La questione è sensibile, parla di rapporti umani e fraterni. Del sangue che scorre dopo qualche omissione. E qui l’assente è stato il dialogo. Dentro il fatto, e poi tra noi e il fatto. Troppe assenze, troppe omissioni. Nel fatto, probabilmente, gli attori della vicenda avranno dialogato poco o punto. Ma se noi non dialoghiamo con il fatto potremmo rischiare di aggiungere guasto a guasto. Gli accadimenti non ci educherebbero perché non li lasciamo parlare. E se non ascoltiamo, neanche impareremo. Parole e fatti sono nostri educatori.

*Giornalista, commentatore di fatti di cronaca e di costume, di letteratura, soprattutto di giovani, religione, scrive per i giornali della sua terra – la Calabria dove è parroco di Paola, in provincia di Cosenza – e per quotidiani e riviste anche estere. Ha collaborato per anni al “Giornale del Popolo”, è coautore di libri (suoi scritti figurano nei libri “David Maria Turoldo, Il coraggio di sperare”; “Il dono di Turoldo”, “Segni di terra. Sul cammino dei viaggiatori dello spirito”.

Pietro De Luca