Giuseppe Zois
Stiamo andando avanti, spesso anche con la sensazione di trascinarci, in un tempo prolungato di pandemia che nessuno aveva previsto e neppure immaginato. Né sappiamo quando usciremo da questo oscuro labirinto. Facciamo previsioni: norme e divieti, privazioni e ansie, un cupo elenco quotidiano di positivi, ricoveri in ospedale e decessi, dolori e speranze.
Ah, come e quanto ci ha cambiato e sta cambiando questa convivenza forzata con il virus! È un mutamento parallelo: variante lui per l’accresciuta potenzialità di contagio e resistenza ai farmaci di contrasto; diversi però anche noi, un po’ in meglio e un po’ in peggio, il dritto e il rovescio. C’è chi si ritrova più riflessivo, altruista, con un’altra scala delle cose che contano; altri invece vivono e soffrono la fragilità di molte relazioni, la precarietà in certi investimenti affettivi, il peso di troppe solitudini subite. Sta preoccupando, e non poco, l’aumento nel consumo di psicofarmaci. E i provvidenziali vaccini non bastano a curare la crisi di sfiducia e di sconforto che si manifesta con molti segnali.

Ancora avvolti dalle spire di questo virus mutevole e alzando lo sguardo sopra la nebbia, diventa ancora più interessante cogliere la percezione del nostro “io” in rapporto agli altri, ai vicini, alla comunità. Auguriamoci che non si accentui la propensione all’individualismo, al primo pronome singolare. La qualità della nostra vita non può essere circoscritta alle pareti di casa. La libertà è relazione e anche viceversa. La quotidianità di ognuno deve comprendere chi ci sta attorno e in un raggio più ampio l’esistenza di tutti.
Un territorio individuale e collettivo al tempo stesso è la fede, la condivisione della stessa che si esprime nella partecipazione a momenti e riti liturgici che scandiscono il calendario dell’anima di ciascuno. Soffriamo e speriamo, cerchiamo rifugio, conforto e consolazione nell’aiuto celeste, invochiamo da soli o nelle diradate funzioni liturgiche – per via del distanziamento interpersonale – assistenza e aiuto nella capacità di sopportare una vita repentinamente cambiata. Preghiamo per ottenere una grazia per familiari, parenti e amici confrontati a vario titolo con il coronavirus, per chi sta lottando dentro un ospedale, senza il calore amico di una mano che passi sulla fronte a trasmettere vicinanza e amore. E ancor più si invoca intercessione dall’alto per una guarigione che sta a cuore e per la quale in un modo o nell’altro, a dipendenza del singolo sentire e credere, ci si spinge fino sulla soglia dell’accadere di un miracolo. Fede, speranza e carità: riunite in una straordinaria sintesi con il cuore proteso verso un “chissà”.

Di colpo abbiamo dovuto confrontarci con la fragilità e la debolezza: da qui la scuola della moderazione, del riprendere fiato, della pausa, della solidarietà, addolorati, in qualche caso anche frastornati e devastati “dentro”. Abbiamo riscoperto il valore della contemplazione, quasi assente dai nostri orizzonti veloci. E contemplare è anche comunicare, quindi condividere ciò che proviamo, e niente è più comunitario che ritrovarsi uniti nel ricercare, supplicare, implorare tutti con aneliti convergenti lo stesso approdo.
Ci rivolgiamo a Dio Padre del Figlio Prodigo, icona del Buon Samaritano e dell’ Amico che si sveglia nella notte per un pezzo di pane, perché ci aiuti a reggere, a sopportare, a far fronte al mistero che mai come adesso si è fatto prossimo e ci inquieta e interpella, ci riguarda e ci coinvolge.
Dio, Gesù, Maria, Santi tutti del paradiso, grandi intercessori – e qui pensiero e preghiere speciali corrono verso S. Rita da Cascia, S. Padre Pio, S. Antonio di Padova… – intervenite per noi, sosteneteci, accompagnateci… Ai pensieri e alle preghiere si accompagna spesso l’accensione di una candela, gesto antico di attesa nella fiducia, ancor più quando le speranze si assottigliano e si riducono al lumicino.

Il silenzio e “la giusta misura davanti alle cose”
C’è anche la vita che purtroppo, in un modo o nell’altro, arriva al capolinea e mai come dal marzo del 2020 abbiamo fatto e stiamo facendo esperienza di laceranti distacchi, strazianti addii, con la dignità sfregiata dall’impossibilità – per decreto – di poter esprimere vicinanza al caro estinto e unione ai parenti in lacrime.
Mai siamo stati messi in contatto così stretto con il dolore e con la sconvolgente prossimità del “tempo ultimo” di cui è stato un sublime testimone Padre David Maria Turoldo.
Non che il frate friulano, “esodato” da Milano – dove disturbava la quiete – all’Abbazia di S. Egidio a Fontanella – tenesse la morte fuori dall’orizzonte della sua parola e del suo ministero di prete. Ma ancora più stringenti e lancinanti divennero il suo vivere e i suoi pensieri quando gli diedero la diagnosi, tradotta in memorabile poesia:
Ieri all’ora nona mi dissero:
il Drago è certo, insediato nel centro
del ventre come un re sul suo trono.
E calmo risposi: bene! Mettiamoci
in orbita: prendiamo finalmente
la giusta misura davanti alle cose;
e con serenità facciamo l’elenco:
e l’elenco è veramente breve.
Appena udibile, nel silenzio,
il fruscio delle nostre passioncelle
del quotidiano, uguale
a un crepitare di foglie
sull’erba disseccata.
Molte volte con gli indimenticabili amici Luigi Santucci, don Alessandro Pronzato, Padre Nazareno Fabbretti, il confratello Padre Camillo de Piaz, ci incontrammo negli itinerari della malattia: a Fontanella, alla casa del PIME a Lecco dove s’era stabilito quand’era in cura all’ospedale di Lecco, infine a Milano, alla Clinica San Pio X. Ne venne fuori una rivisitazione di tutta la vita, costellata di prediche tonanti e provocazioni profetiche, con uomini e storie di un intenso percorso di uomo, prete, intellettuale, poeta confluiti in due libri (“Il coraggio di sperare” e “Il dono di Turoldo”). Poi il cerchio inevitabilmente si strinse sull’approssimarsi e sull’incombere sempre più immanente della morte – parola aborrita nella realtà supertecnologica d’oggi – con i rintocchi già percepibili del campanone.
La sentenza che ora tu sai
nulla di nuovo aggiunge a quanto
già doveva esserti noto da sempre:
tutto è scritto. Di nuovo
è appena un fatto di calendario.
Eppure è l’evento che tutto muta
e di altra natura
si fanno le cose e i giorni.
Subito senti il tempo franarti
tra le mani: l’ultimo
tempo, quando
non vedrai più questi colori
e il sole, né con gli amici
ti troverai a sera…

Martini e Turoldo uniti nel soffrire e nel credere
Malattia, sofferenza, preghiere – e quante! – alternarsi di speranze con le terapie della modernità scientifica e medica, poi – come metafora finale – la paura che fu anche di Gesù nell’orto del Getsemani e che unisce due giganti dello spirito, Turoldo, appunto, e il cardinale di Milano Carlo Maria Martini. Buio che entrambi vissero, cantarono e nel quale penetrarono lasciandosi macerare dalla notte.
Fu proprio il Cardinale Martini che celebrando i funerali di Turoldo in San Carlo a Milano pronunciò un’omelia di attualità senza fine e che è molto appropriata alla pandemia che stiamo vivendo. Soprattutto oggi infatti, sentendoci – come società globale – “nella prova, nella notte, nel buio si sentono capite e confortate” dalla capacità di Turoldo di “essere pellegrini nella valle oscura, di non nascondere la sofferenza, i timori, le angosce, di vivere questa situazione dolorosa con e per tutti, con un sentimento di compassione profonda e universale”.
Possiamo riprendere e adattare al presente e fare anche nostre le parole dette per Turoldo: “Tu, Padre David, hai sentito il silenzio di Dio, l’abbandono dell’uomo, l’urlo della disperazione presente in ciascuno di noi; e ci hai condotto per queste foreste oscure, con mano amica, tremante, perché tu stesso tremavi e temevi, ma con una fede incrollabile, che non sempre abbiamo saputo capire e valutare… Ci hai insegnato e detto tanto, accompagnandoci nelle nostre notti e nelle nostre paure, e l’hai detto con affetto, con tenerezza, con dolcezza, con tutte le forme dell’amicizia umana che tu sentivi con indicibile profondità”.
Ho citato Turoldo e Martini non a caso nell’emergenza epocale che stiamo attraversando, e poi anche perché lo stesso cardinale, verso la fine dei suoi giorni, confidava alla nipote la paura che avvertiva nell’ultimo passo terreno: tremante egli stesso di fronte al mistero, con la fede che rischiarava il suo cammino verso l’abbraccio con il Padre e con la domanda che nei momenti di quel passaggio estremo ci fosse qualcuno accanto che gli tenesse la mano. Anche in Martini troviamo la tenerezza che egli aveva riconosciuto a Turoldo e la luce della fede. Si capisce così perché Martini, interrogato su quale fosse per lui studio, biblista, uomo di Dio, il miracolo che più l’avesse colpito di tutto il Vangelo – e sono tanti! – rispose: “La lapide rovesciata del sepolcro di Cristo”, garanzia pasquale della sua e nostra risurrezione.
Foto: Luciano Colotti