“Oggi ho prestato giuramento: sono in magistratura. Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige”.
(dal diario di Rosario Livatino, 18 luglio 1978)
Enzo Dossico
Ha una data la beatificazione di Rosario Angelo Livatino, il giudice ucciso nel 1990 dalla mafia della Stidda: domenica 9 maggio 2021 nella Cattedrale di Agrigento. Livatino era nato il 3 ottobre 1952. Nell’iter di questa causa è emerso che chi ordinò quel delitto conosceva quanto Livatino fosse retto, giusto e attaccato alla fede e che per questo motivo, non poteva essere un interlocutore della criminalità. Andava quindi ucciso. Il mortale agguato gli fu teso sulla strada che conduce dal paese natio del magistrato, Canicattì, ad Agrigento il 21 settembre del 1990.
C’è da dire che sono passati 28 lunghi anni da quando Giovanni Paolo II, incontrando ad Agrigento i genitori del magistrato, aveva definito Livatino «un martire della giustizia e indirettamente della fede». Lo osserviamo con la dovuta cautela e ben sapendo che ci saranno molteplici plausibili spiegazioni: per molte cause di beatificazione le procedure viaggiano spedite verso la gloria degli altari, per altri i tempi sono alquanto prudenti (eufemismo). E la casistica a tale riguardo è anche ampia. Con la saggezza popolare si può senz’altro commentare “meglio tardi che mai” e di sicuro Rosario Livatino non ha bisogno dell’ufficialità lenta – nonostante le parole chiare di San Giovanni Paolo II (Karol Wojtyla) – per essere ricordato e venerato per la sua testimonianza coraggiosa fino al martirio, che era una cronaca quasi annunciata visti l’impegno e la coerenza con cui si batteva per la legalità e la giustizia, non dimenticando la misericordia e le relative opere, sia di natura spirituale che corporale. Fanno fede a tale riguardo le parole del postulatore della beatificazione di Livatino, l’arcivescovo di Catanzaro Vincenzo Bertolone, che fu anche promotore della causa del beato don Pino Puglisi: “Rosario si era consacrato a Dio. Un magistrato assai produttivo, che non si lasciava intimidire: ne odiavano il rigore morale, la perfetta applicazione dei codici, la coerenza cristiana. Mentre condannava i reati, pregava per i morti ammazzati, aiutava le famiglie di chi era in carcere, non disperava della redenzione dei mafiosi più incalliti. Un magistrato che accostava la giustizia alla carità: “Professava la fede come anima del modo di amministrare la giustizia”.
Non è casuale sul calendario la data del 9 maggio scelta per la beatificazione del “giudice ragazzino”, come lo definì in un toccante libro Nando Dalla Chiesa, figlio del Generale Carlo Alberto, ucciso dalla mafia a Palermo il 3 settembre 1982 insieme con la giovane moglie Emanuela Setti Carraro.

Fu infatti il 9 maggio 1993 che proprio Papa Wojtyla dalla Valle dei Tempi, ad Agrigento, scagliò il suo anatema contro la mafia: «Dio ha detto una volta: non uccidere. Non può l’uomo, qualsiasi uomo, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio. Nel nome di Cristo, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!» sottolineando che «il popolo siciliano che ama e dà la vita non può vivere sotto la pressione di una civiltà della morte».
Rosario Livatino fu trucidato perché combatteva la mafia facendo il suo lavoro con rigore. La Santa Sede ha riconosciuto il martirio del giudice commesso «in odium fidei» («in odio alla fede»), come emerse dal contenuto di un decreto della Congregazione per le Cause dei Santi, di cui Papa Francesco autorizzò la promulgazione nel corso di un’udienza col cardinale prefetto Marcello Semeraro. La prova del martirio «in odium fidei» del giovane giudice siciliano è arrivata anche grazie alle dichiarazioni rese da uno dei quattro mandanti dell’omicidio, che ha testimoniato durante la seconda fase del processo di beatificazione (aperta il 21 settembre 2011 e sostenuta da mons. Vincenzo Bertolone, agrigentino).
Il 2 febbraio scorso, su disposizione della Dda di Palermo, è stato fermato il mandante dell’uccisione di Livatino: il boss Antonio Gallea. Condannato all’ergastolo, dopo aver scontato 25 anni di carcere, era stato ammesso alla semilibertà dal Tribunale di sorveglianza di Napoli il 21 gennaio del 2015.