Quando si tratta di fare un esempio di compagine amata da tutti in quanto simbolo di classe, umanità e correttezza, non ci si può esimere dal menzionare il Grande Torino.
Il sodalizio granata, infatti, rappresentò la voglia di rivalsa e di riscatto di tutta una Nazione: quell’Italia uscita sì distrutta dalla Seconda Guerra Mondiale, ma che voleva recuperare e rimettersi in piedi, dopo gli anni delle divisioni e dei rancori.
Giuseppe Livraghi*
I ragazzi in granata furono, usando termini recenti, “la meglio gioventù”, dei giovani non solo forti, ma soprattutto onesti e leali, amati da tutti e rispettati anche dagli avversari, quali esempi da seguire, non solo in campo (cinque scudetti consecutivi conquistati, più una Coppa Italia, che fece di loro la prima compagine italiana ad effettuare l’accoppiata scudetto-Coppa), ma anche fuori: basti pensare che nella tournée del 1948 in Brasile furono acclamati sia dai brasiliani d’origini italiane sia da quelli di altre ascendenze.
Purtroppo, la fine di quella grande compagine arrivò un anno dopo, quando alle 17:03 del 4 maggio 1949 l’aereo che stava riportando a Torino i ragazzi granata incocciò contro la Basilica di Superga.
Perirono tutti i passeggeri: i 18 giocatori, tre dirigenti, tre allenatori, tre giornalisti e i quattro membri dell’equipaggio.
Il Toro stava rientrando da Lisbona, ove il giorno precedente aveva affrontato la locale compagine del Benfica in un incontro amichevole (perso per 4-3), disputato in onore del capitano dei lusitani Francisco Ferreira, legato all’omologo torinista Valentino Mazzola da una grande e fraterna amicizia, a dimostrazione di quanto i granata fossero stimati anche oltreconfine.
Al funerale, celebrato a Torino il 6 maggio 1949, partecipò mezzo milione di persone, in grande silenzio e fra tante lacrime: tutta la città (anche chi non seguiva il calcio) era in strada, in primis la Juventus, storica rivale cittadina, ma unita nel dolore.
In onore di quei giovani calciatori, che “mach ël destin a l’ha poduje fërmé” (frase piemontese traducibile in “solo il destino l’ha potuto fermare”), tante compagini mutarono i loro colori sociali, mentre vari stadi vennero intitolati ai giocatori di quella straordinaria squadra.
Quel Torino non consisteva solamente in una squadra di calcio, ma anche in un incoraggiamento per tutti: a impegnarsi, a rimboccarsi le maniche (come faceva capitan Valentino Mazzola nei momenti di difficoltà delle partite) per riprendersi insieme dai tempi bui.
Il grande scrittore e giornalista Indro Montanelli affermò: «Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto, ma che è soltanto “in trasferta”».
Una compagine, quella granata, capace di vincere cinque scudetti di fila (1942-’43, 1945-’46, 1946-’47, 1947-’48 e 1948-’49), con l’aggiunta della Coppa Italia 1942-’43: una squadra che, a differenza di altre, non è storia, bensì leggenda, che il destino ha voluto fermare all’apice della sua grandezza.
Una compagine talmente forte che in un’occasione fornì dieci giocatori alla Nazionale azzurra: era l’11 maggio 1947, quando a Torino l’Italia sconfisse per 3-2 l’Ungheria.
A dimostrazione di quanto rimase vivo quel Torino nella memoria di tanti, basti ricordare che molti padri, nell’accompagnare a letto i loro bimbi, intonavano loro una filastrocca che, in realtà, consisteva nella formazione di quel Grande Torino: Bacigalupo; Ballarin, Maroso; Grezar, Rigamonti, Castigliano; Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola.
* Giornalista appassionato di storia e di amarcord calcistico, pignolo nel ripercorrere carriere di protagonisti sui rettangoli verdi. Ama cogliere ed evidenziare soprattutto le gesta degli atleti divenuti universale simbolo di correttezza e lealtà, anche nella vita, dopo aver lasciato la scena agonistica.
