La comunità come architrave

Il libro “Comunità come bisogno” di Ulderico Bernardi è un viaggio ripreso dopo quasi 40 anni: una rivisitazione con aggiornamento della situazione, alla luce della strada fin qui fatta. L’orizzonte non era incoraggiante allora: lo è ancor meno oggi, sotto il peso di molti cambiamenti in peggio. Basterà pensare alle voci terrorismo internazionale e fondamentalismo; alla comunicazione e alle pseudo comunità proposte dalla rete, con il cyberbullismo; alla crisi economica; alla corruzione… Bernardi esplora la comunità dal versante dei valori, della cultura e dell’identità.

Giuseppe Zois

Che tipo di comunità siamo? Come eravamo e come siamo diventati? Andiamo avanti, siamo progrediti in senso comunitario o siamo andati indietro? Se ciascuno dà un’occhiata al proprio orto, se si guarda un po’ attorno, ha senz’altro subito a portata di mano elementi utili per farsi un’idea, per esprimere un giudizio. Non è per essere negativi da subito, ma l’attualità quotidiana – che è fatta soprattutto dalla negatività – porta a conclusioni non propriamente ottimistiche, anche se è vero che siamo sotto un bombardamento mediatico incessante. Ci ritroviamo sempre più precipitati, di girone in girone, sempre all’ingiù, dentro una società – non già una comunità – rancorosa, vendicativa. Ho chiesto recentemente a un uomo di Dio che da 60 anni fa il prete degli ultimi, schierato dalla parte di chi fa fatica a vivere per mancanza di mezzi, quali sono i veleni più insidiosi del nostro tempo. Non ha esitato nell’indicare invidia e gelosia, che sono le madri di una moltitudine di gramigna cresciuta non fuori di noi, ma prima di tutto dentro noi. Ulderico Bernardi, all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, aveva scritto un lungimirante saggio, che aiutava a scorgere quanto stava arrivando nella società ipertecnologica: “Comunità come bisogno”, con l’indicazione esplicativa “Identità e sviluppo dell’uomo nelle culture locali”. La Jaka Book, la Casa editrice che lo pubblicò, aveva poi chiesto al sociologo, docente all’Università di Ca’ Foscari, proveniente da quella di Bergamo, di aggiornare il tutto alla luce di questi convulsi 40 anni, in cui si è velocizzato tutto a rotta di collo. Ne è uscito un mosaico che merita una attenta riflessione. La dobbiamo fare tutti, ma principalmente la dovrebbero fare coloro che a vario titolo occupano posti di responsabilità a qualunque livello, in primis i politici che hanno le leve del potere. Anzi no: forse l’avevano, il potere: oggi sono ancora convinti di detenerlo, ma sono stati nettamente sopravanzati dall’economia che ha rovesciato la piramide, e dalla pandemia che ha tsunamizzato tutto su scala globale. Con le conseguenze che stiamo sopportando tutti, sempre più pesanti, giorno dopo giorno, in un preoccupante clima di incertezza, di diffidenza e di crisi a tutti i livelli.

Un vitale rifugio nel tempo dell’insicurezza

È proprio l’economia che sta tracciando la rotta della comunità, depotenziandola, svalutandola dei valori che formavano l’architrave dell’edificio in cui viviamo, dalle nostre case al paese, al mondo, con lo sbocco che abbiamo visto e stiamo vivendo della globalizzazione. Che – scriveva Bernardi prima dell’esplosione della pandemia nel suo libro “Comunità come bisogno” (Jaka Book) – “è un dato di fatto tecnologico, ma gli scopi che deve perseguire sono come sempre dettati dagli uomini”. Apriamo la finestra e vediamo che la crisi in atto, “economica nei suoi effetti ma non nelle cause, viene dal collasso dell’ambiente culturale ed è quello che va risanato”. Siamo al gatto che si morde la coda. Quella che doveva essere un’opportunità di riscatto per i più poveri sta “infierendo sulle aree già povere dei continenti”, generando nuove povertà. Il vero senso della crisi è dunque culturale. La diagnosi del male è perfetta, conosciamo le origini ma non riusciamo a trovare una terapia appropriata ed efficace. Che comunità è quella che privilegia investimenti colossali per produrre armi, cioè strumenti di morte, lasciando che la fame e la miseria sterminino popoli interi nell’indifferenza più totale? Che comunità è quella che si vuole sbarazzare dei vecchi come ingombri sociali e che non fa figli per mancanza di certezze e ovvia paura del domani? Si teorizza e si argomenta che non si può dare tutto a tutti, che è troppo costoso… Intanto si marginalizza sempre di più l’uomo fragile e gli si antepone il robot, che serve, non dissente, non brontola, e quando ce n’è uno migliore ci possiamo liberare del vecchio senza problemi… Poi vediamo bene la traduzione di certo sfruttamento selvaggio delle braccia: le multinazionali ma anche le stesse nazionali fanno salire vertiginosamente gli utili, tagliando brutalmente sulla manodopera… La comunità è un bel principio, una bella enunciazione, ma prima di tutto viene il profitto. Quello è il nuovo idolo di una certa idea di comunità. I nuovi profeti degli accumuli giganteschi di finanza stanno facendo una devastazione imponente dell’homo religiosus, su cui insisteva giustamente Bernardi nei suoi libri e nei suoi scritti sui giornali, perché gli sia recuperato il primato, ora detenuto dall’homo economicus.

Vecchio trattore
Il regista Ermanno Olmi in un’intervista che mi rilasciò per la Radio Svizzera mi fece coincidere la fine della civiltà contadina con l’arrivo del trattore. Era l’inizio della società industriale che ci ha proiettato dove siamo arrivati, avanzati tecnologicamente e scientificamente, ma più poveri dentro e fuori e più chiusi e diffidenti.

Il perno del vivere. La linfa del volontariato

Viviamo in un’epoca che ha prodotto un sacco di confusione e di disorientamento e Bernardi, da sociologo attento e con un ricco bagaglio di saggezza e di equilibrio, frutto di una solida esperienza umana e professionale, aveva scattato una fotografia nitida del presente. “Ci ritroviamo a vivere un tempo in cui ciò che viene esaltato è la precarietà, l’instabilità, insistendo con superbo distacco nell’ignoranza del passato. E questo spiega perché le relazioni tra gli uomini, le generazioni i continenti siano divenute conclamate occasioni di ostilità. Ma la comunità, nonostante tutto resta un bisogno fondamentale e questo è il “perno” di tutto, anche dei ragionamenti che Bernardi esponeva e spiegava. Occorrerà in ogni modo, e prima che sia troppo tardi, ripartire dalla prima forma di comunità che è la famiglia. Poi si impone un recupero urgente dei valori. Più della moneta fluttuante deve essere la terribile fluttuazione dello spirito a preoccuparci e il sociologo di Treviso lo ha ribadito a oltranza: le comunità non devono in alcun modo essere defraudate dei valori. Sbandamento, sradicamento, incapacità di ritrovare il senso dell’esistere sono i mali che ci tormentano oggi. Ci sono però anche antibiotici potenti. Ad esempio, “quanto più alto è il tasso di volontariato tanto più elevato è lo spirito di comunità nella società stabile e prospera” e questa è stata una chiave di volta ricorrente nella visione che Bernardi perché la comunità possa recuperare il posto che le spetta. Le forme diffuse di volontariato altruistico e di associazionismo indirizzato al bene comune “testimoniano come l’economia del dono non è stata cancellata dall’economia di mercato. Ecco perché l’arcaicità può essere assolutamente contemporanea. Bisogna saperla riconoscere”. Siccome la persona deve vivere di relazioni, in una pluralità di appartenenze e cercando stabilità nei rapporti, il cemento di sempre è uno solo e si chiama ricerca del “bene comune”. Che vuol dire, ad esempio, privilegiare la cooperazione, l’associazionismo, la collaborazione nella competizione.