Ha fissato volti e luoghi della nostra gente. Molti suoi libri sono usciti in Svizzera. Nel Ticino ha legato il suo nome al “Giornale del Popolo”, con numerosi titoli, dai mestieri scomparsi o in via di estinzione alla religiosità popolare, con un focus sulla processione del Gannariente. Ha spaziato dalla civiltà dell’acqua a quella della montagna che unisce i popoli, alla vita di clausura. Il ritratto fatto dal giornalista Giovanni Gazzaneo: “Ci ha testimoniato un mondo”.
Giuseppe Zois
Ci ha lasciato le icone dell’umanità dei semplici, degli ultimi, della civiltà contadina, che era di sofferenza per le fatiche del vivere quotidiano ma era anche una serenità, era la capacità quasi smarrita di far festa, di essere comunità. Questa l’immagine che è stata scattata ieri nella chiesa di S. Anna, in Borgo Palazzo a Bergamo, per l’addio partecipato e toccante al fotografo Pepi Merisio, una “firma” internazionale con il suo obiettivo.
Molti i legami che Pepi Merisio ha avuto con la Svizzera, con la Atlantis di Zurigo – per la quale ha realizzato libri con le sue fotografie e testi di autori italiani tradotti in tedesco. Ma ancor più stretto è stato il legame con il Ticino e in particolare con il Giornale del Popolo. E anche qui molti anni sono stati segnati da suoi libri fotografici con il sostegno di grandi firme. È il caso di ricordare una trilogia come “Mira il tuo popolo”, con diverse immagini dalla processione del Gannariente in Valle Bavona alla Milizia napoleonica di Ponto Valentino per la Madonna del Carmelo; poi “Civiltà dell’acqua”, “La montagna che unisce”, “I Giardini del silenzio”, “I Sacri Monti delle Alpi”, “I mestieri di una volta”. Tra gli autori sono da ricordare Italo Alighiero Chiusano, Ulderico Bernardi, Luca Zanini, il vescovo-teologo Bruno Forte, Claudio Sorgi, Federico Fazzuoli.
Si è riunita una folla di amici, conoscenti, estimatori di ogni area e provenienza per assistere ai funerali – questa mattina, venerdì 5 febbraio – presieduti dal parroco don Eliseo Pasinelli con un gruppo di sacerdoti attorno all’altare, tra i quali il parroco di Caravaggio, paese dove Pepi Merisio era nato nel 1931. Lo sguardo è stato il filo conduttore degli interventi di don Pasinelli all’omelia, con accenti insistiti sulla dirittura morale di Merisio, come uomo e come cristiano convinto, un uomo di carattere, con una personalità e un’intelligenza spiccate, coerente con le sue idee e i suoi ideali, di riconosciuta saldezza sia nel mestiere sia – ancor prima e di più – nei rapporti umani, che facevano scattare l’empatia nei soggetti da ritrarre. E il punto di partenza e di arrivo era lo sguardo: per la sua famiglia, la moglie Anna Maria innanzi tutto, che è stata la bussola di un’esistenza fatta di viaggi continui, di incontri, di contatti. Pepi aveva la certezza di una moglie e di una mamma perfetta regista nell’educazione dei figli Marta e Luca, del loro futuro, dei nipoti ma anche nella gestione dei molti impegni di lavoro del marito e padre.
Al termine del rito, il giornalista e scrittore Giovanni Gazzaneo – che scrive per “Avvenire” e “Luoghi dell’infinito”, testate per le quali ha lavorato anche Pepi – ha tracciato un intenso ritratto dell’uomo e dell’artista, con le tessere di un ricco e policromo mosaico. “Gigante nel fisico e nello spirito – lo ha definito, ricordando il lungo percorso compiuto da Pepi in più di mezzo secolo con l’obiettivo a tracolla – . Era uno che prima di tutto guardava con il cuore. Possedeva una rara prontezza di sguardo che lo metteva subito in comunicazione con le persone, con gli altri, con i molti “altrove” che ha fissato su km di pellicole. Aveva interesse dichiarato per l’umanità di chi aveva di fronte, per la bellezza che è stata la centralità continua del suo messaggio. Alla bellezza accostava altre virtù come l’essenzialità, la sobrietà in un canto di terra e di cielo, di vita e di morte”.
Le fotografie di Merisio parlano e raccontano i suoi orizzonti, le sue radici, con lo sguardo suo – riecco l’architrave di una documentazione – verso lo sguardo altrui, nella costante dello stupore. Realtà, speranza, genialità degli artigiani, serenità dei vecchi che molto hanno dato e poco hanno chiesto: è l’eredità di un mondo al tramonto di cui Pepi ci ha tramandato gli ultimi bagliori, consentendo a noi e al futuro di fare memoria, di restare nella memoria. “Al centro – ha continuato Gazzaneo – c’era la concezione del tempo, c’era la proiezione di una luce che dalla terra lambiva il cielo. Avvertiva l’esigenza di immortalare la civiltà contadina, per la quale ha consumato parecchie suole di scarpe, dalla pianura alla montagna, dai laghi alle valli”. Quello che si è conosciuto di Pepi è il ritratto di un uomo libero: che nello sguardo ha saputo moltiplicare intelligenza e sensibilità, testimoniando la sia fede da quella decisiva cattedra che è la vita.
Il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori ha sottolineato la corrispondenza d’empatia che si stabiliva tra il fotografo che doveva ritrarre e le persone che entravano nel suo obiettivo, ma prima ancora nella sua capacità di immedesimarsi nell’altro. “Ci ha narrato i cambiamenti di questi ultimi decenni, chi siamo stati fino al passato prossimo, chi siamo diventati nell’arco di tempo abbracciato con la sua macchina fotografica. Sono gli ultimi scampoli di una civiltà di fatica, di sudore, ma anche con l’energia del ritrovarsi come comunità”. Ed è un messaggio che è un’eredità da custodire. È già storia.