Il 20 aprile 1993 moriva a Molfetta il vescovo don Tonino Bello, una figura che univa splendidamente Vangelo, parole e opere. Ci ha aiutato a spiegare le vele della speranza. Nell’ultimo saluto che volle mandare alla sua gente c’è tutto il coraggio della sua fede con la luce che questa irradia al cristiano. Disse con la forza e la serena certezza del Vangelo: “Vi benedico da un altare coperto di penombre, ma carico di luce. Vi benedico da un altare circondato da silenzi, ma risonante di voci”.
Giuseppe Zois
Quando chiesi le coordinate per l’intervista con l’allora vescovo di Molfetta, “don Tonino” come lo chiamavano tutti, la voce amica che me le indicò, aggiunse: “Non sorprenderti se chi ti risponderà avrà qualche difficoltà a esprimersi. Nell’episcopio don Tonino ha accolto famiglie di immigrati senza casa e in cerca di lavoro. Vedrai che te lo troveranno”. Andò secondo le previsioni e con un percorso quasi diretto. Don Tonino era già molto provato dal male che lo stava piegando, ma fu solare e positivo come nel suo stile umano, prima, molto prima che pastorale. Avevo letto suoi libri, seguivo a distanza il suo indomito impegno per la pace. Un coraggioso a oltranza, non c’era ostacolo che lo fermasse, neppure i tentativi dei medici di dissuaderlo da certe rischiose fatiche. Forse quel vescovo aveva la percezione del tempo che si stava facendo breve e andava avanti ignorando il “drago” e portando ovunque la sua testimonianza.
Don Tonino viveva il Vangelo con coerenza piena, povero tra i poveri, condividendo quello che aveva. Spesso il niente, come quella volta a Roma che doveva rientrare a Molfetta in treno e si ritrovò in stazione senza portafoglio e senza un centesimo, con il disagio che si può immaginare. Se mai l’avesse provato di persona, lì sperimentò quante umiliazioni costi la fatica di raggranellare quattro soldi per rientrare, fra ingenerosi sospetti e solforose, gratuite critiche e aspre rampogne. Bisogna sentire i morsi della fame per sapere cosa significa. L’intervista che dovevo fare era tappa di un viaggio nel dolore e nella sofferenza, nell’angoscia di chi è malato e si dibatte nella disperazione della povertà. Come i suoi “ultimi” ai quali dava un tetto, una tavola e un letto perché non dormissero sotto le stelle.
Don Tonino conosceva tutti i registri delle emozioni e dei sentimenti. Si restava affascinati da ciò che diceva, era il linguaggio del cuore. Imbattibile, toccante, coinvolgente. Non si poteva restare indifferenti ai suoi SOS lanciati in nome della dignità, della condivisione e della fratellanza.
Confesso però che mi si sono scolpite dentro le parole rivolte ai giovani nel Giovedì Santo della sua ultima Pasqua – l’8 aprile 1993 – a pochi giorni dalla sua morte, avvenuta il 20 aprile, all’età di 58 anni. La sua più grandiosa eredità, che ci è d’aiuto e conforto con inalterabile freschezza.
Credo non vi sia persona che non avverta nel suo ultimo tempo l’angoscia di quanto sta vivendo e del mistero verso il quale è avviato, pur sorretto da una fede himalayana come don Tonino. Per dirla con l’animo del suo confratello David Maria Turoldo, la fine annunciata è “l’evento che tutto muta / e di altra natura / si fanno le cose e i giorni. / Subito senti il tempo franarti/ tra le mani: l’ultimo / tempo, quando / non vedrai più questi colori / e il sole, né con gli amici / ti troverai la sera… / Dunque, per quanto ancora?”.

Il vescovo sentiva lucidamente l’approssimarsi della fine, ma non volle arrendersi e alla Messa crismale pronunciò un addio che è forse uno tra i più sublimi inni alla speranza. Disse: “Ho preso la parola per dirvi che non bisogna avere delle lacrime, perché la Pasqua è la Pasqua della speranza, della luce, della gioia e dobbiamo sentirle”. Poi, rivolgendosi ai ragazzi: “Tanti auguri perché nei vostri cuori ci sia sempre la trasparenza dei laghi e non si offuschino mai per le tristezze della vita che sempre ci sommergono. Vedrete come, fra poco, la fioritura della primavera spirituale inonderà il mondo, perché andiamo verso momenti splendidi della storia. Non andiamo verso la catastrofe. Ricordatevelo”. E prima di un commovente “Vi voglio bene”, mandò il suo ultimo messaggio alla diocesi: “Vi benedico da un altare coperto di penombre, ma carico di luce. Vi benedico da un altare circondato da silenzi, ma risonante di voci”.
Ecco, morire con questa serenità d’animo, con questo spirito di abbandono totale nella pace di Dio, non è morire. È una luce che ci guida nel cammino sempre e ancor più sui margini insidiosi di questa pandemia del coronavirus.
Giuseppe Zois
LA TESTIMONIANZA
Coraggio, fratello che stai soffrendo: c’è anche per te un grembo di tenerezza

di Tonino Bello*
Se è vero che la Croce è l’unità di misura di ogni impegno cristiano, dobbiamo fare attenzione a un grosso pericolo che stiamo correndo: quello che S. Paolo, scrivendo ai Corinzi, chiama l’«evacuazione della Croce». Che non significa disprezzo della Croce, o rifiuto della Croce, o irrisione della Croce. No. Non c’è nessuno di noi che non parli con eloquenza del «legno santo». La Croce rimane sempre al centro delle nostre prospettive. Ma noi vi giriamo al largo. Troppo al largo. Prendiamo una extramurale lontanissima dal colle dove essa s’innalza. È come quando, in viaggio, si sfiora una città passando dalla tangenziale. Mentre l’automobile corre sulla strada, si dà ogni tanto un’occhiata ai campanili che si ergono e alle torri che svettano. Ma poi tutto finisce lì. Purtroppo la nostra vita cristiana non incrocia il Calvario. Non s’inerpica sui tornanti del Golgota. Passa di striscio dalle pendici. Come i Corinzi anche noi, la Croce, l’abbiamo «inquadrata» nella cornice della sapienza umana, nel telaio della sublimità di parola. L’abbiamo attaccata con riverenza alle pareti di casa nostra, ma non ce la siamo piantata nel cuore. Pende del nostro collo, ma non pende sulle nostre scelte. Le rivolgiamo inchini e incensazioni in chiesa, ma ci manteniamo agli antipodi della sua logica. L’abbiamo isolata, sia pure con tutti i riguardi che merita. È un albero nobile che cresce su zolle recintate. Nel centro storico delle nostre memorie religiose. All’interno della zona archeologica dei nostri sentimenti. Ma troppo lontano dalle strade a scorrimento veloce che battiamo ogni giorno. Dobbiamo ammetterlo con amarezza. Abbiamo scelto la circonvallazione e non la mulattiera del CaIvario.
Non angosciarti,
non arrenderti,
non abbatterti,
non avvilirti…
Coraggio. Tu che soffri inchiodato su una carrozzella. Animo, tu che provi i morsi della solitudine. Abbi fiducia, tu che bevi al calice amaro dell’abbandono. Non ti disperare, madre dolcissima che hai partorito un figlio focomelico. Non imprecare, sorella, che ti vedi distruggere giorno dopo giorno da un male che non perdona. Asciugati le lacrime, fratello, che sei stato pugnalato alle spalle da coloro che ritenevi tuoi amici. Non angosciarti, tu che per un tracollo improvviso vedi i tuoi beni pignorati, i tuoi progetti in frantumi, le tue fatiche distrutte. Non tirare i remi in barca, tu che sei stanco di lottare: hai accumulato delusioni a non finire. Non abbatterti, fratello povero, che non sei calcolato da nessuno, che non sei creato dalla gente e che, invece del pane, sei costretto a ingoiare bocconi di amarezza. Non avvilirti, amico sfortunato, che nella vita hai visto partire tanti bastimenti, e tu sei rimasto sempre a terra. Coraggio fratello che soffri. C’è anche per te una deposizione dalla croce. C’è anche per te una pietà sovrumana. Ecco già una mano forata che schioda dal legno la tua. Ecco un volto amico intriso di sangue e coronato di spine, che sfiora con un bacio la tua fronte febbricitante. Ecco un grembo dolcissimo di donna che ti avvolge di tenerezza. Tra quelle braccia materne si svelerà, finalmente, tutto il mistero di un dolore che ora ti sembra un assurdo.
Riconciliamoci con la gioia
e le croci sembreranno
antenne per farci udire
la musica del cielo
Lo so che non ti mancano argomenti per puntellare la tua disperazione. Lo so. Forse rischio di restare in silenzio anch’io, se tu mi parli a lungo dei dolori dell’umanità: della fame, delle torture, della droga, della violenza. Forse non avrò nulla da replicarti, se attaccherai il discorso sulla guerra nucleare, sulla corsa alle armi… Forse rimarrò suggestionato anch’io dal fascino sottile del pessimismo, se tu mi racconterai della prostituzione, del dilagare dei furti nelle nostre case, della recrudescenza di barbarie tra i minori… Forse mi arrenderò anch’io alle lusinghe dello scetticismo, se mi attarderò ad ascoltarti sulle manovre dei potenti, sul pianto dei poveri, sulle umiliazioni di tanta gente senza lavoro. Forse vedrai vacillare anche la mia speranza, se continuerai a parlarmi di Teresa che, a trentacinque anni, sta morendo di cancro. O di Corrado che, a dieci, è stato inutilmente operato al cervello. O di Lucia che farà la Prima Comunione in casa perché in chiesa, con gli altri compagni non potrà andarci più. O di Nicola e Annalisa che, dopo tre anni di matrimonio e dopo aver messo al mondo una creatura, se ne sono andati ognuno per la sua strada, perché non hanno più nulla da dirsi. Riconciliamoci con la gioia, miei carissimi fratelli: le croci sembreranno antenne, piazzate per farci udire la musica del cielo.
*Vescovo di Molfetta, presidente di Pax Christi