In questa memoria odierna vogliamo riunire e accomunare le quasi mille vittime del coronavirus (971 al 24 marzo 2021), con le loro esistenze che restano nei cuori delle loro famiglie e nella gratitudine delle comunità dove a vario titolo hanno lavorato e in molti si sono spesi per lo sviluppo delle loro comunità.
Giuseppe Zois
Da un anno viviamo avvolti nell’incubo del coronavirus, nella denominazione di “covid-19”, un’epidemia scoppiata in Cina e diventata ben presto una pandemia. Un cataclisma che nessuno aveva né immaginato né previsto e che ha messo in ginocchio l’intero pianeta. Le cifre sono spaventose e il contagio purtroppo continua. Si pensava che il virus perdesse in aggressività e invece le ondate si susseguono: si è arrivati alla terza. La speranza di vincere questa guerra mondiale, scatenata da un virus veloce e mutevole, con varianti in corso, è affidata alle campagne di vaccinazioni. Che sono a macchia di leopardo, secondo il primo mezzo efficace di contrasto di nome denaro. Lo si è visto bene nella corsa all’accaparramento dei vaccini dei diversi colossi della big-pharma, Pfizer, Moderna, AstraZeneca, Johnson & Johnson e altri con arrivo annunciato. Intanto, sul calendario delle esistenze individuali, si è vissuto un anno che sta destabilizzando tutti, con modalità e forme diverse. Lockdown totali per mesi, divieti, norme a raffica, limitazioni, mascherine, distanziamenti, corse no-stop ai rubinetti per lavarsi le mani, sanificazioni imposte in molti locali pubblici. Scenari surreali.
In un tempo sospeso, con vite terremotate, oltre a stravolgere i comportamenti abituali, è passato uno tsunami che ha distrutto con i 2,74 milioni di decessi (e non è la cifra finale) una memoria collettiva irrecuperabile. Un patrimonio di esperienze -sotto tutti i cieli – che è stato di colpo spazzato via. E come non bastasse, un numero incalcolabile di vittime del coronavirus se ne sono andate in desolanti solitudini, senza un congiunto che tenesse loro la mano nel momento del distacco, affidati alle pietose cure e vicinanze di medici e infermieri curanti, a loro volta devastati da quanto erano costretti a vivere. Nemmeno il conforto di un abbraccio, impedito precauzionalmente anche tra i familiari più stretti. Gli stessi funerali circoscritti alle famiglie, niente celebrazioni religiose, niente cerimonie al cimitero. Uno sfregio alla dignità umana.
Fra le vittime della prima ondata del coronavirus nel Ticino – lockdown annunciato il 13 marzo ed entrato in vigore il 16 marzo – c’è Gianfranco Scerpella di Medeglia, ricoverato la sera del 17 marzo e morto il 26. Lo ricordiamo perché nella regolare e puntuale quotidianità dei suoi giorni questo uomo è riuscito a moltiplicarsi con una misura, un impegno e una generosità sorprendenti. Ne stralcio i passaggi salienti da una più ampia biografia scritta per lui.

Gianfranco Scerpella, un instancabile uomo del fare per la comunità di Medeglia e per la Carvina
(…) Al bivio del domani e del “chi” essere e “cosa” fare, fino al crepuscolo della civiltà contadina era tassativo fermarsi per decidere quale strada prendere. A Medeglia questa era storia antica. I più partivano.
Gianfranco, nato il 29 aprile 1937, aveva individuato alla Scuola d’Arti e Mestieri di Bellinzona la strada della sua vita professionale: ottenuto a pieni voti il diploma, nel 1957, aveva poi trovato “il posto” a Zurigo, per tre anni. Un sabato, al rientro dalla città della Limmat, apprese di essere stato designato municipale del suo Comune di Medeglia. Sarebbe subentrato al papà, che fu municipale per 12 anni. Un destino crudele era in agguato: nel 1961 la famiglia Scerpella perse in un incidente stradale avvenuto a Berna il secondogenito Renzo, all’età di 21 anni.
Rientrato da Zurigo, con un mestiere per affrontare il domani, Gianfranco fu assunto dalle PTT, regia federale delle Poste dei Telefoni e del Telegrafo di Lugano alla Centrale sopra la Posta. Per 3 anni seguì corsi di formazione per diventare specialista in radio e televisione. Nel 1963 fu poi assunto per la Stazione del Monte Ceneri dove lavorerà fino allo spegnimento dell’emittente per poi vivere gli ultimi 6 anni di lavoro alla nuova stazione radio della Cima di Dentro, sopra Isone.
Venendo da una famiglia di adesione al PPD per gli ideali di ispirazione cristiana era quasi una staffetta passarsi il testimone. Gianfranco sapeva però guardare oltre, in lontananza nei decenni in cui ha ricoperto e svolto ruoli politici e pubblici. Ed è questo orizzonte ampio che lo ha fatto benvolere, rispettato e ascoltato ovunque perché non parlava mai per calcolo o tornaconto personale: agiva in una prospettiva comunitaria.
L’esordio fu all’inizio degli indimenticabili anni Sessanta. I Comuni di Valle vivevano un pesante ritardo in molti campi, dalla scuola ai trasporti. La strada Bironico-Isone era poco più che una mulattiera. Proprio in quegli anni – lo ricordava sempre Gianfranco, quando faceva una ricognizione nella sua attività politica – venne a sapere da Bellinzona del progetto di costruzione della Caserma di Isone, in vista della quale fu proposto di eliminare la strettoia davanti alla chiesa di Medeglia, così da consentire il passaggio dei mezzi pesanti per il cantiere della costruenda opera. Fu presentato un progetto con demolizione di quattro stabili, che di fatto però non avrebbe migliorato la viabilità e peraltro non considerata le problematiche di tutto l’assetto urbanistico davanti alla chiesa stessa. Gianfranco si oppose con tutte le forze, ottenendo una variante radicale che successivamente avrebbe consentito la realizzazione dell’attuale piazza di San Bartolomeo, antistante la chiesa. Determinante fu il ruolo del giovane ma già risoluto municipale nelle trattative con Bellinzona per il progetto della strada di circonvallazione con aggiramento della chiesa, progetto poi abbandonato alla fine degli anni Ottanta ma che servì come fattore di cambio per ottenere la costruzione del marciapiede lungo la strada nell’abitato del paese.

Conoscenza approfondita e precisa del paese
Municipale dal 1960 fino al 1984, con l’alacrità che gli veniva riconosciuta da tutti, Gianfranco – che fu anche vicesindaco – fece parte di numerosi Consorzi: dall’Ente turistico Valli di Lugano alla Regione Valle di Lugano. Fu anche presidente dell’Azienda forestale regionale e, per non farsi mancare niente, per vent’anni ricoprì il ruolo di segretario della locale Cassa Raiffeisen.
Capolavoro riconosciuto del suo multiforme spendersi per la comunità fu – nel 1973 – insieme con Peppino Bagutti, la costituzione dell’Associazione degli Amici dei Monti di Medeglia per un’attenta e concreta valorizzazione del territorio. Un sogno cui teneva molto fu la posa della croce sulla Cima di Medeglia, nel 1991. E 4 anni dopo, eccolo presidente della Delegazione del Consorzio raggruppamento terreni di Medeglia, un suo antico cavallo di battaglia, compito molto delicato, che svolse con la sua collaudata capacità di mediazione (…).
Gianfranco era uno che conosceva tutti quelli del suo villaggio: non solo di chi partiva in cerca di fortuna, ma l’albero genealogico di tutte le famiglie. Io rimanevo sorpreso e meravigliato ogni volta che a lui chiedevo qualche informazione di carattere locale per un servizio giornalistico, lui risaliva indietro di 2, 3 anche quattro generazioni, precisando le frazioni dove abitavano e persino i soprannomi, perché nei paesi ci si conosceva anche così, anzi, forse era la forma più rapida per identificare una persona. Sapeva chi era andato in Canada e chi negli Stati Uniti, chi nel Perù e chi in Argentina. Era una miniera di dati e di contatti. Lui era così. Aveva una facilità straordinaria nell’allacciare rapporti, gli veniva naturale, d’istinto. Dappertutto (…).

L’addio e la rivisitazione di un percorso umano
Qualcuno ha scritto che il coronavirus è il pettine della Storia e forse ha ragione con i mutamenti che ha comportato, gli errori e i ritardi, le disfunzioni e le inefficienze, le macerie che lascerà con una rinascita lunga e gravosa.
Questo anno di coronavirus ha cambiato abitudini e modi di vivere, nel privato e nel comunitario. Lo si è visto nelle chiese con le acquasantiere vuote, gesti proibiti, precauzioni liturgiche, più nessuna celebrazione o preghiera comunitaria. Di colpo tutto è diventato freddo, deserto e desolante: impossibili anche i funerali, circoscritti all’intimità familiare. Ai parenti dei defunti si è tolto anche il conforto della vicinanza di amici e conoscenti. Questo equivale alla negazione della relazione. Ed è anche la caduta di quel minimo di rispetto che ci dev’essere comunque e sempre per la dignità della persona, pur comprendendo bene che la salute è un bene da salvaguardare ad ogni costo, anche con proibizioni.
È capitato purtroppo che un uomo della comunità com’era Gianfranco ha avuto dal destino – e come lui molti altri, vittime del virus – l’amara sorte di un addio in solitudine. Abbiamo vissuto nelle nostre interiorità lo sfregio di non poter recare un fiore come ultimo segno di vicinanza, stima, affetto e gratitudine. Il morbo ignoto e misterioso venuto da lontano si è portato via a 82 anni Gianfranco, che era il ritratto della salute, con la sua incontenibile energia.
È difficile fare ricapitolazione su ciò che Gianfranco lascia in ciascuno di chi gli è stato accanto. Per stare ad uno dei mondi con cui ha familiarizzato una vita, cioè il suo operoso alveare – “Alla Motta”, lato destro della strada, al primo tornante dove salendo si vede il grappolo di case disteso attorno alla chiesa di Medeglia – avvertiamo quel sommesso rumore che si percepisce nelle sere d’estate passando vicino alle arnie. Ognuno ha i suoi ricordi accumulati in anni di frequentazione, con echi di appassionate discussioni, perché si infervorava nel sostenere le idee in cui credeva, di “bianchini” o caffè bevuti nei ritrovi sulla cantonale verso Isone o, più frequentemente, a casa sua. Momenti che adesso si sedimentano nel cuore e nella memoria e si trasformano in un “grazie” silenzioso ma vasto, da una folla di chi gli ha voluto bene e ne ha conosciuto e apprezzato le ricche risorse umane. L’ultima volta che ci salutammo in una notte già tiepida di inizio febbraio del 2020, con la luna che occhieggiava in cielo, Gianfranco sentiva aria di primavera e parlava di barbatelle da piantare, di qualche innesto che aveva in mente, del suo apiario da ripopolare. La sua improvvisa scomparsa ha qualcosa di innaturale: ci fa scrutare l’animo alla ricerca dell’ultimo momento insieme, di convivialità. E ci fa pensare che salire a Medeglia non è più la stessa cosa: le rondini che inauguravano e chiudevano le stagioni delle sue api sono ritornate, anche le api hanno ripreso a volare da mattina a sera per trasformare il polline in miele, ma il ronzio dei molti ricordi si è insediato nella memoria e nel cuore di chi l’ha conosciuto e gli ha voluto bene.
Alla moglie Edvige, ai figli Daniela, Laura e Fiorenzo, alle loro famiglie ed ai parenti tutti va la rinnovata espressione di vicinanza nell’amicizia.
Giuseppe Zois