La pandemia che ci sta condizionando la vita da ormai 14 mesi, ha procurato parecchie deflagrazioni sociali. Avranno da lavorare e non poco psicologi e psichiatri: pensiamo soltanto al carico di paure, angosce, insicurezza, diffidenza, inclinazione alla solitudine. Come rovescio della medaglia, ci ha fatto recuperare valori che avevamo perduto di vista, nella frenesia dei giorni che andavamo vivendo.
Anna Carissoni*
Dunque pare che torneremo a breve “a riveder le stelle”. È iniziata – lentamente – la nuova ripartenza e pare che si avvicini, seppure a tappe, l’uscita dall’incubo che da più di un anno a questa parte ci condiziona la vita. Ma a sentire gli esperti non ci sono solo quanti scalpitano per precipitarsi all’uscita del tunnel: ci sono anche coloro che temono di lasciare il bozzolo in cui si erano avvolti e non desiderano tornare ad una vita di relazioni al di fuori di quelle familiari.
La definiscono “ansia sociale”, questa nuova patologia indotta dalle chiusure del lockdown: a soffrirne c’è una schiera abbastanza folta di persone, addirittura il 49% degli americani, secondo uno studio pubblicato dall’American Psychological Association: manifestano difficoltà nel tornare alle interazioni sociali, nel riprendere la routine pre-pandemia – lavoro in presenza, viaggi, vacanze, pranzi, cene e feste, palestra, ecc… – nel gestire conversazioni con gli altri che non facciano parte della ristretta cerchia di persone con cui sono abituati a conversare on-line…
In effetti le restrizioni pandemiche hanno sicuramente allontanato, se non cancellato, dal nostro vissuto quotidiano tanti volti e tante persone; anche i luoghi del nostro comunicare si sono ridotti all’essenziale, così come i tempi del nostro vivere limitati dal coprifuoco: una socialità sacrificata sull’altare della sicurezza e, spesso, della diffidenza e della paura.
Ma anche a chi non è patologicamente affetto da “ansia sociale” il covid-19 sta lasciando il segno: ci ha costretti a selezionare le amicizie, gli amori, le passioni, conservando solo quelli che ci interessavano davvero; ci ha fatto lasciare il contatto fisico – non solo l’abbraccio, ma anche la pacca sulle spalle, la stretta di mano, la carezza… – contatti necessari quanto il cibo e la cui mancanza abbassa il livello di ossitocina – l’ormone della felicità – mentre fa aumentare il cortisolo, l’ormone dello stress: per questo l’interazione è così importante per il nostro benessere, così come le chiacchiere e i brevi scambi di parole con i colleghi di lavoro che il lavoro da remoto ha fatto scomparire.
Forse però ci rimarrà anche, come retaggio della pandemia, la nuova abitudine a comunicare con gli occhi che ha esaltato lo sguardo e le sue mille sfumature di significato come la gratitudine, la commozione, la solidarietà, l’empatia, la contraddizione, tutti sentimenti che possono passare attraverso gli occhi e permettere una comunicazione profonda, perché a volte, come ha scritto Dacia Maraini – “lo sguardo può unire due persone più di un abbraccio”.
Ecco, quando smetteremo di portare le mascherine, non sarà forse un male aver imparato a far parlare gli occhi ed a leggere dentro quelli dei nostri simili con maggiore attenzione e sensibilità. E chissà che questo nuovo modo di parlare riesca ad esprimere le nostre emozioni meglio di quanto facciano sovente il viso, il corpo, i gesti e le nudità, tanto sfacciate quanto esaltate, dal nostro costume e dalla nostra cultura.
*Insegnante e giornalista, collabora a testate italiane e svizzere, occupandosi con passione della difficile realtà educativa del nostro tempo e dei problemi del vivere in montagna. Le sue numerose pubblicazioni dedicate a questi argomenti hanno tutte lo scopo di favorire l’approfondimento, la riflessione ed il ragionamento critico, finalizzati alla consapevolezza ed all’impegno sociale e civile.
