Le infinite vie dei messaggi pubblicitari. E c’è chi le immagina anche sulle mascherine

Un giornalista e scrittore carico d’anni, d’esperienza e d’inventiva – Giorgio Torelli – ha affacciato la bizzarra ipotesi che “nelle strettezze virali”, si possa arrivare anche “ad affittare lo spazio bianco delle proprie mascherine per scriverci a pagamento slogan pubblicitari o predilezioni mercantili”… Sappiamo che non c’è limite alla fantasia.

Enzo Dossico

Diversi anni or sono (parecchi), nella redazione di un giornale ci fu la necessità di procedere a quello che si chiama “restyling” di immagine più che di linea e contenuti. Stava già cominciando il dominio dell’immagine – in questo caso dell’apparenza” rispetto all’essenza. E per un giornale cartaceo contava e dovrebbero continuare a fare la differenza le informazioni, comprese quelle pubblicitarie, sia chiaro, oltre alla successione, pagina dopo pagina, delle notizie. Il problema, quando si deve immaginare, creare, inventare qualcosa di nuovo è da dove cominciare, cosa proporre, quale “adrenalina” inserire nelle colonne delle pagine per suscitare o accendere l’interesse, la curiosità, quindi l’avvicinamento dei lettori alla testata.

La geniale intuizione del pubblicitario

Il bivio è sempre arduo. Si sa quello che nel tempo si è accumulato, ma si procede a tentoni per l’innovazione, tanto che c’è il proverbio molto chiaro in materia: “Chi lascia la strada vecchia per la nuova, se quello che lascia ma non quello che trova”.
Un creativo delle PR, iniziali che stanno per Pubbliche Relazioni, per stupire chi doveva decidere da che parte andare e per convincere a “osare” direzione e redazione, raccontò di una sua geniale intuizione. In virtù della quale aveva costruito anche una buona parte della sua piattaforma di fama che s’era tradotta in successo.
Cominciò il suo fervorino con una domanda: sapete qual è il luogo dove una persona è più portata a leggere? Seguirono molti avvicinamenti, approcci, interpretazioni, non mancava la fantasia: chi disse in poltrona, chi disse in treno, altri a tavola quand’è al ristorante, altri ancora in camera… Nessuno pensò o comunque, se lo fece, non osò profferir verbo. E cioè – questa la risposta – alla “toilette”, che senza andar per il sottile, quel creativo chiamò “cesso”. E con tale rimando di luogo, oltre che al moderno e pulitissimo bagno di casa, o d’albergo, indirizzò l’uditorio divertito anzichenò sui “gabinetti pubblici”, in primis quelli delle stazioni.
Partendo da questo presupposto, lui mise a punto una campagna promozionale per un messaggio che venne affisso sulle porte interne dei WC. Da lì gli venne notorietà, il trampolino del suo futuro.

Sul bavaglio d’ordinanza

Tutto questo preambolo per fare una fuga in avanti, sempre restando in questo campo dei messaggi e della pubblicità che – come si sa – è l’anima del commercio. Un amico giornalista di lungo corso, inviato speciale di riviste per anni, poi approdato alla corte di Indro Montanelli e in parallelo scrittore con l’uranio addosso – Giorgio Torelli – ha abbozzato uno scenario neanche troppo surreale in tempo di coronavirus. Con un pezzo magistrale ha “viaggiato” attorno alla pezzuola a elastici che “maschera il sembiante”, cioè la bocca e non solo. Ha raccontato i limiti che derivano al nostro linguaggio dalla mascherina, colpevole di ingolfare il flusso delle frasi nei rari dialoghi d’incontro.
“Ci ritroviamo dunque con un diritto di parola conculcato – ha scritto il baffuto Torelli, narratore carico d’inventiva a 90 anni suonati – quando i nostri usi e costumi di civiltà loquace prevedevano il contrario: parlarsi a lungo, dovunque ne fosse il caso e se ne dilatasse l’opportunità. Il discorrere urbano non era un frusto chiacchierare, ma un’arte anche scenica di cui perseguire modi e vanto. Nel corretto rimpallo delle frasi non si giocava a far le belle statuine, ma a tessere il piacere del confrontarsi. Che consolazione, per esempio, vedersela a parole su misura con una bella signora appena incontrata per buona sorte. E dare il via alle galanterie verbali nell’afflato reciproco, non viziato dalla disinvoltura e invece tornito dal mettere in musica le parole perché nulla di quanto si andava dicendo abdicasse all’eleganza di una partitura”. Ma che c’entra tutto questo con la pubblicità, dove sta il possibile aggancio?

Più un’occhiata che la parola

C’entra, c’entra. Le mascherine infatti nell’immaginazione fervida di Torelli recitano simboli o allegorie. «Intanto, i bavagli fru fru di fantasia – annota il parmigiano d’antan trapiantato a Milano – sfoggiano l’orgoglio della diversità: “Io sono molto io e personalizzo tutto quel che indosso”. E va ancora bene che, nelle strettezze virali, non si arrivi ancora ad affittare lo spazio bianco delle proprie mascherine per scriverci a pagamento slogan pubblicitari o predilezioni mercantili». Eccolo qui il punto di snodo. Ci imponiamo tutti di sperare che ora l’alta stagione delle mascherine possa finire ed essere ricordata come parte integrande delle protezione dal virus mutevole, ma ci pensate a un dialogo con un amico o un conoscente o un qualsiasi passante dove la curiosità sia catturata non già dalle parole, ma dalla lettura del messaggio che va a mantice, secondo il fiato in dotazione singola?
Ciò che più conta, però, è al di là delle mascherine è il fatto che ci mancano – fatale assenza – le sonore voci, quelle mai in maschera, della musicalità che sta davvero a cuore: quella degli accenti più cari, più affettuosi dei nostri ricordi e delle nostre esistenze.