Uno dei grandi problemi del presente è il trionfo dell’individualismo, che si riassume nel pronome “io”. C’è un delirio di egolatria. In molti tendono a sopravvalutarsi, a ritenersi indispensabili. E si va avanti assecondando questa convinzione di autoreferenzialità che sconfina nella mitomania di se stessi. E non è un caso se assistiamo a molte forme di sfaldamento del senso comunitario.
Pietro De Luca*
È un dispositivo linguistico di dimensioni appena evidenti, ma deve contenere una carica di potenza incalcolabile. Riesce a spuntare persino da un discorso palesemente di categoria. Scendono i ristoratori in piazza e quell’appuntamento vorrebbe segnalare il loro disappunto per la chiusura dei locali di sera, a causa della pandemia.
Ebbene, ci aspetteremmo un “riapriamo”. Neanche per sogno. Spunta un “io apro”, finanche pronunciato da chi, per elezione e per compito, dovrebbe muoversi rappresentando piuttosto una petizione di popolo. Se giusta e opportuna, lasciamo correre.
L’io è come un guitto sempre lesto a partire, penetra e fuoriesce, spavaldo e sicuro di sé, in ogni discorso. Non si dà neanche il tempo per comporsi all’interno del soggetto, prendere le giuste misure e proporzioni, che è già in battaglia.
No, non può trattarsi di un tic verbale, quell’io premesso a qualsiasi comparsata. È un io che nasce da una concezione, per così dire, psicologica e filosofica. Dire io equivale a ritenere che il parlante non si sente né alla pari né esistenzialmente in mezzo agli altri. Si avverte, piuttosto, prevalente, se non addirittura assolutizzante.
Il primo esempio viene dalla politica
Il primo esempio (cattivo) ce lo offre la politica. Non abbiamo più partiti costituiti e anche ordinati al loro interno. Non ci sono quadri, consigli, luoghi di elaborazione del pensiero, occasioni di ascolto, confronto e dibattiti. Tutti uguali: anziani e giovani, persone che hanno già camminato e conquistato vette e principianti alle prime armi. Aggiungiamo anche correnti, se con questo termine vogliamo indicare cordate di pensiero che entrano nel grande circuito e diventano egemoni per questo o quel tempo. Spuntano “io”, più o meno brillanti, più o meno furbi, che sanno alzare la voce, illustrare strategie e poi raccogliere consensi da parte di altri “io” in conflitto aspro e permanente, in attesa di occasioni più favorevoli. Presenze in tivù, occhiolini compiacenti dai sondaggisti e amici della rete, decretano il gradimento di colui o di coloro che presto sono incoronati re e regine di voti e di consensi. È una lotta a prevaricare, a raggiungere postazioni e da lì esibirsi con quell’effluvio di parole che solo parole devono produrre e sempre lontane dai fatti.
Sull’io va la politica che per antonomasia nacque dal noi. E sull’io continua ad andare il resto della vita anche quando è un noi che è stato prima e verrà domani.
Valore del singolo, plusvalore dell’insieme
Questa egemonia dell’io che brucia e cancella col tempo potrebbe logorare quegli ambiti e istituzioni che per statuto sono nate nel noi. Per esempio: la famiglia, le comunità religiose, le classi di una scuola, le squadre di calcio, le équipe mediche, i consigli di ogni genere e specie. Come se l’io dovesse poter valere solo in una condizione emergente e non in una condizione componente, che non vuol dire per nulla gregaria. Dove realmente si lavora insieme, il valore del singolo non è mai annullato e neanche sommato al valore degli altri, semplicemente si armonizza, così come una pietra incastonata in quei bellissimi muri che ovunque ci è dato ammirare non ha perduto singolarità e fascino.
Il guasto più grave che produce l’io è l’egolatria, questa, sì, capace di generare gregari disposti a perdere smalto proprio per accodarsi e fare cordate, molto spesso con la debolezza di vendere il proprio cervello all’ammasso.
Di tanto in tanto la nostra umanità o la nostra convivenza di umani tende ad espandersi producendo comunità, oppure a ritrarsi. Negli anni scorsi si gioiva del nascere di forme di condivisione e ci si rattristava quando si intravedevano segnali di riflusso nel privato, nel giardino chiuso dell’esistenza. Da qualche decennio, se ci si apre agli altri, avviene per irrompere con l’io: salvatore della patria, aggiustatore dell’Italia, grande stratega di ogni piano sbandierato come soluzione vincente. Tanto è vero che la dicitura, anche quella più seriosa, per indicare un semplice coordinatore viene pubblicizzata con il nome di colui che “sarà a capo di…”. Naturalmente coperto di onori e di una montagna di quattrini.
Il nostro è il tempo dell’io. Che non è un io calmo, neanche umile, neanche aperto. È un io che vuole farsi padrone. Che delira. Poi, però, accade pure che si manifesti infantile, debole e nudo, capriccioso e inconcludente. Il popolo dimentica. Aspetta il prossimo. Tarda a decidere che la risorsa migliore è solo lì dove tanti “io” provano a stare insieme in un “noi” responsabile.
*Giornalista, commentatore di fatti di cronaca e di costume, di letteratura, soprattutto di giovani, religione, scrive per i giornali della sua terra – la Calabria dove è parroco di Paola, in provincia di Cosenza – e per quotidiani e riviste anche estere. Ha collaborato per anni al “Giornale del Popolo”, è coautore di libri (suoi scritti figurano nei libri “David Maria Turoldo, Il coraggio di sperare”; “Il dono di Turoldo”, “Segni di terra. Sul cammino dei viaggiatori dello spirito”.
