Ma quando torneremo alla normalità?

Non si sa più cosa pensare, a quale linea operativa dare credito. È un’altalena di attese, promesse, rinvii o ammorbidimenti soft. “Alla fine il rischio è quello di adattarsi a vivere confinati, fra nuove abitudini che si consolidano”, ci dice la prof. Anna Oliverio Ferraris, docente di Psicologia dello sviluppo, psicoterapeuta e scrittrice.

Giuseppe Zois

Si allenta? Non si allenta? Ma sì, dai che si allenta l’aggressività del covid-19. E se anche non si allenta, facciamo che comunque si allenti, perché fa bene credere e coltivare quest’illusione che è eutrofica dopo ormai 15 mesi di deprimenti, cupi scenari da pandemia. Non possiamo rassegnarci all’idea che il contagio non decresca, abbiamo San Vaccino in nostro aiuto, l’uscita dal labirinto è ormai prossima. Però, però, anche con i vaccini non è poi tutto così chiaro e rassicurante come vogliono farci credere. Prima le motivate (?!) perplessità su AstraZeneca con le diverse fasce anagrafiche ad altimetria variante (in coerenza con le variazioni del virus). Un clamore mediatico globale, qualcuno continua a vietarlo (ad esempio la Danimarca), il polverone resta sospeso, come il tempo.
Non finisce il caso del vaccino svedese-inglese che parte la valanga di Johnson & Johnson. Ma ci pensiamo un attimo? Sei casi di trombosi su 6,8 milioni di vaccinati, che equivale a dire un caso ogni milione di persone. Ed ecco che negli Stati Uniti l’FDA, cioè l’ente che disciplina l’uso ne decreta la sospensione immediata, con scosse sismiche immediate in Europa. Ci vorranno giorni per l’analisi dei dati: quindi altri ritardi dopo i molti accumulati per calcoli surreali e inefficienze a vari livelli (e l’inefficienza è colpa). Ci si è sbagliati clamorosamente e così i più lesti si sono accaparrati dosi gigantesche e altri sono rimasti a corto o a secco. Se poi si impongono anche sospensioni prudenziali… Stando fra pari grado, Israele ha distanziato la Svizzera nell’approvvigionamento dei vaccini.
Molta gente poi, diciamocelo, preferisce aspettare e vedere come evolve la conclamata immunità di gregge di cui fu alfiere Boris Johnson. Abbiamo ben presenti tutti i minuetti di cui si è reso protagonista, prima banalizzando sulla pericolosità del virus, poi ricredendosi al momento del contagio e di tutte le conseguenze provate sulla sua pelle, quindi con la vaccinazione di massa, le limitazioni, il lockdown, le quarantene imposte per chi parte e arriva sul territorio del Regno Unito, i divieti di espatrio salvo che per motivi gravi.

Insomma si sta zigzagando tra dentro-fuori, alti-bassi, chissà se… e a dominare è sempre l’incertezza con tutta la lunga coda di negatività che si porta appresso: paure, preoccupazioni, diffidenze, solitudini. Si aspetta Godot: ma arriverà o non arriverà mai, come il copione del personaggio famoso vuole?
Torneremo alla normalità almeno entro l’estate?
Ci vuole gradualità. Calma, passo dopo passo, aperture misurate per non propiziare nuove ondate di ritorno. Insomma, aspetta e spera. E chi vivrà vedrà. Le cifre però parlano, migliaia di contagi, di nuovi positivi, di ricoveri, purtroppo anche di decessi, ogni sacrosanto giorno. E vediamo Stati che nonostante tutto non ammorbidiscono le misure di difesa in atto. Resistono sulla linea di salvaguardia dura.

Ho posto un paio di domande alla professoressa Anna Oliverio Ferraris, docente di Psicologia dello sviluppo all’università “La Sapienza” di Roma, psicoterapeuta e scrittrice di illuminati saggi educativi per genitori e docenti.

Prof. Anna Oliverio Ferraris, è vero che questo anno di pandemia, con i relativi contraccolpi ci ha reso più chiusi, egocentrici, in definitiva con più accentuata propensione a essere single, più soli?
Ho notato certamente un ripiegamento di molte persone su se stesse. Stando chiusi in casa, non si è potuto e ancora non si può fare tutta una serie di cose che si facevano prima, ad esempio viaggi più o meno lunghi, vacanze, serate con gli amici, al cinema, a teatro, tutta la vita al di fuori delle pareti domestiche. Tutto questo ha creato anche notevoli disagi. Alla fine il rischio è quello di adattarsi a vivere confinati, fra nuove abitudini che si consolidano. Bisognerebbe pensare che le cose cambieranno di nuovo e forse torneranno come prima, altrimenti c’è il rischio che uno si adatti ad uno stile di vita isolato dagli altri, dagli amici. Conosco amici che fanno vita da casalinghi, si sono adattati, vedono molti film, cosa che prima non facevano… Alla fine c’è il rischio di non avvertire più la necessità di ritornare alla vita più movimentata e varia di prima. La famiglia però alla fine può diventare soffocante, opprimente con queste chiusure. Troppa famiglia può anche far male. Ci si controlla a vicenda, ci si critica, si diventa ossessivi, non è un modo di vivere sano. Si dovrebbe cercare di fare un maggior numero di cose diverse, mai rassegnandosi alla passività e all’apatia.

La libertà è relazione, principio che vale anche rovesciato. La salvaguardia della salute collettiva è un imperativo, ma non si può rinunciare alla libertà e alle relazioni…
Uno si trova tra due fuochi. Anche la televisione e i mass media in genere si sono molto impoveriti come argomenti: non parlano d’altro che della pandemia, dei positivi, dei tamponi, degli ospedalizzati e dei morti, dei vaccini con tutta la scia di interrogativi, critiche, accuse… Manca la volontà di aprire orizzonti, di proporre qualcosa di nuovo e diverso, quasi sempre con gli stessi invitati con immutabili menu. Sembrano quasi delle litanie. Forse è anche una certa pigrizia che porta ad attestarsi ai soliti blocchi. Come nella propria casa uno ha sempre gli stessi familiari, così accade anche con certe trasmissioni. S’è sviluppata una sorta di regressione, vengono meno gli stimoli culturali. Uno spettacolo deprimente.