Bisogna afferrare il tempo con le mani per farne subito qualcosa di nuovo; perché ciò che si consegna a un astruso bisogno di velocità è già vecchio, non avrà l’energia civile per ritrovare il bene della normalità che fece dire a Louis Aragon, ma era un poeta, «solo il normale è poetico».
Sergio Zavoli, giornalista, scrittore
L’illusione troppo affrettata di essere ormai fuori pericolo ha creato problemi ovunque. Troppi si sono sentiti liberi di poter gestire il tempo e la vita a propria discrezione e ci siamo ritrovati nella seconda ondata. Poi con le varianti del virus, dall’inglese, alla brasiliana, alla sudafricana. E le sofferenze continuano, ma anche troppe leggerezze e irresponsabilità. Per ripartire davvero dobbiamo saper limitare l’estensione della nostra “normalità”.
Maria Cristina Parrella
Ve li ricordate gli striscioni fuori dai balconi e dalle finestre? Quegli striscioni ingenui e tenerissimi, realizzati con lenzuola, federe, strofinacci. Il materiale era eterogeneo, ma il messaggio era sempre lo stesso: un arcobaleno su cui campeggiava la scritta “Andrà tutto bene!”.
Ve li ricordate? È passato solo un anno da quando, all’improvviso, le nostre vite sono state completamente sconvolte e tutto ciò che consideravamo normale è diventato di colpo eccezionale.
D’un tratto è diventato un privilegio andare al bar a bere un caffè, fare due chiacchiere con qualcuno, corteggiare il barista o la barista, sfogliare il giornale gentilmente messo a disposizione dal titolare.
“Andrà tutto bene!”.
A distanza di un anno, gli striscioni sono spariti quasi dappertutto. Se qualcuno è rimasto, è sbiadito per effetto del tempo.
È bastato che ci sentissimo privati delle nostre quotidianità per diventare ipso facto dei rivoluzionari. Perché va bene essere stoici e fare i concerti sui terrazzi dei palazzi e i flash mob a mezzogiorno dalle finestre, ma il diritto all’apericena è sacro e inviolabile!
E così, complice un temporaneo rallentamento dei contagi, legato solo a fattori climatici, abbiamo preso a comportarci come se nulla fosse accaduto, ignorando i consigli di chi cercava di farci capire che il pericolo non era scampato ma che, anzi, il nemico era subdolamente dietro l’angolo, pronto a colpire con più forza di prima.
“Sarebbe andato tutto bene!”.
Questo è quanto scriverei su uno striscione improvvisato, realizzato con quel telo da spiaggia che non ho potuto usare la scorsa estate, perché ho preferito rinunciare per non rischiare.
La mia quotidianità, al pari di quella di tanti altri, è cambiata. Ho fatto a meno di tante cose che, nella normalità del pre-pandemia, mi sembrava facessero parte naturale dello scorrimento della mia vita. La colazione al bar, il pranzo al ristorante, la passeggiata per lo shopping, l’aperitivo con gli amici, la pizza, il cinema. Nei primissimi momenti del primo lockdown non ne ho sentito la mancanza, perché la paura legata a questa terribile parola, “pandemia”, era forte e non lasciava spazio ad altri sentimenti. Mi sono detta che, per il bene di tutti, rinunciare ai miei piccoli riti quotidiani non era nulla e, forse, mi sono sentita anche un po’ eroica, per questa mia propensione.
Ma, come sappiamo, non è servito. La pandemia ha proseguito il suo implacabile cammino, seminando il mondo intero di sofferenza. E non perché le rinunce non servissero bensì, perché molta parte della popolazione non ha ritenuto di dover fare a meno della propria normalità, non considerando che la normalità individuale molto spesso cozza con il benessere collettivo.
Da più parti sento parlare di ripresa economica, di quanto sia importante che le piccole e grandi attività produttive ripartano a pieno regime. Trovo che tutto ciò sia sacrosanto ma, personalmente, credo che la ripartenza debba cominciare da noi, dai cittadini; dobbiamo essere in grado di limitare le nostre “normalità” se vogliamo dare al nostro Paese il respiro per poter ripartire.