Intervista di Giuseppe Zois
Fa parte del Club degli intramontabili, forse potrebbe anche essere incoronata regina. In Italia Orietta Berti – 78 anni il prossimo 1 giugno – potrebbe condividere il trono con un’altra protagonista di lungo corso nella storia della canzone, Rita Pavone. Una è l’icona della serenità unita però anche a humor e ironia, come s’è vista anche in questo Sanremo dell’Ariston senza pubblico ma sempre nel cuore dell’Italia e non solo; l’altra ha l’argento vivo ancora oggi. Non so come se la cavi in cucina Rita Pavone: magari sa destreggiarsi ai fornelli come Antonella Clerici; Orietta di sicuro possiede il ricco repertorio della gastronomia romagnola ed ha abilità da vendere. Tortellini e lambrusco, insomma.
Negli anni passati, soprattutto le cantanti avevano un soprannome cavato dal mondo piumato: ecco allora la Tigre di Cremona (Mina), la Pantera di Goro (Milva), l’Aquila di Ligonchio (Iva Zanicchi). Lei, Orietta, aveva l’appellativo delicato di “Usignolo di Cavriago”. Possiede inalterata la capacità di trasmettere calore umano, è l’immagine della sua terra – l’Emilia – quindi dell’accoglienza. Con lei ci sta tutto il fiabesco incipit: “C’era una volta…”. Fu infatti 56 anni or sono che esordì con “Suor Sorriso”. Da allora non ha mai smesso di essere protagonista sul palcoscenico della canzone.Ha una voce pastosa e calda, è padrona della scena, possiede misura e discrezione, unite all’affabilità, alla cordialità dei modi. Sorride spontanea, è inalterabilmente ottimista e si impone di trasmettere positività. Forse lei stessa ha perso il conto dei motivi che ha fin qui interpretato. Sono centinaia e nel suo repertorio figurano anche 75 canzoni popolari italiane, dal Trentino alla Sicilia. Ha il merito di essere rimasta fedele a se stessa, semplice in un mondo complicato, a suo agio ovunque, che canti in una festa di paese o a Sanremo.
Orietta Berti è molto di più del pur importante Festival di Sanremo: come donna, moglie, madre, per la testimonianza di saldezza nel fluttuare di troppe cose e nell’incertezza che sembra avvolgere i giorni di questo interminabile confinamento. È un vaccino di positività, di fiducia, di resilienza di cui si avverte un diffuso bisogno.
La proponiamo in una densa, amichevole conversazione scambiata all’ombra delle basiliche di San Francesco ad Assisi.

Da “Suor Sorriso” in poi, collana di canzoni lunga 56 anni
Orietta Berti, con lei non si sa da dove cominciare. Per un’intervista completa non basterebbe un libro…
L’anno del debutto mi portò subito bene. Nel 1965, dopo “Suor Sorriso”, andai a Saint Vincent con “Tu sei quello” e vinsi la gara. Da allora non mi sono fatta mancare niente: Sanremo, Canzonissima, Un disco per l’estate, Gondola d’oro. Il mio debutto sul palcoscenico dell’Ariston a Sanremo fu con “Io ti darò di più”, che resta indimenticabile. Anni belli, di concerti, anche all’estero, ho girato tutta l’Europa, ho cantato più volte in Canada…
Cosa serve per avere successo?
Innanzi tutto, per un cantante, la voce. Poi ci metterei anche l’interesse e la passione a sperimentarsi in più di un genere.
Che pagella si sente di dare alla canzone italiana?
In passato c’era l’imbarazzo della scelta, ora pare che gli stessi autori abbiano un po’ abdicato alla loro vocazione, all’entusiasmo creativo. Oggi – tempo del coronavirus a parte con tutte le chiusure che ha comportato – nelle balere va il liscio, tutte le orchestre sono da liscio, poi ci sono i vari complessi che ripropongono i Nomadi o Vasco Rossi. Un autore come fa a vivere? Se ti dà la canzone per Sanremo e poi vende dieci dischi? La realtà d’oggi non è distante da questa raffigurazione e la canzone ne risente.
La sua eccezionale longevità artistica come la spiega?
Una miscela di tanti fattori. La fortuna, i mezzi vocali, persone competenti e franche attorno a te, empatia con il pubblico e tempo non cronometrato nei concerti. La gente capisce se canti per amore o solo per cassetta.
Quanti concerti in un anno?
Prima che scoppiasse la pandemia, una cinquantina, soprattutto in estate, ma fino a qualche anno fa la media era di 100-120. Ai tempi di Canzonissima, tutti quanti, non solo io, lavoravamo praticamente ogni sera. Nel Sud italiano, ci capitava anche di fare due o tre concerti nello stesso giorno, su piazze vicine: magari aprivo io, poi continuavano Ranieri e la Caselli e io andavo dove loro avevano cominciato. Era massacrante ma anche entusiasmante.
Lei voleva diventare un soprano vero, è andata diversamente. Rimpianti?
Sono felice di ciò che ho vissuto. Quando ci siamo conosciuti, io e Osvaldo, lui mi seguiva e faceva da manager, ma non voleva lasciare il certo per l’incerto. Si teneva il suo lavoro, era in società con un cugino. Dopo tre anni, non gli fu più possibile, perché gli impegni si moltiplicavano. Siamo ancora qui dopo 56 anni. Abbiamo sempre pensato, però, che domani potrebbe essere un altro giorno.
G.Z.

“La fede deve tradursi in carità e azione. Credere è amare”
Diagnosi di Orietta Berti sul vivere oggi, a prescindere da quest’anno lungo di tempo sospeso per via del coronavirus…
Siamo in una società egoista, dove crescono diffidenza e indifferenza. Gli amici sono pochissimi e dobbiamo tenerceli stretti. Io abito in un piccolo paese, a Montecchio, fra Reggio Emilia e Parma: anche qui le cose stanno cambiando. Ognuno tende a stare per sé.
Da dove è possibile ripartire?
Nel 2012 ho fatto il giro dei 14 conventi di San Pio da Pietrelcina. È stata una bella esperienza, anche di tempo condiviso. Al termine di uno spettacolo, di una serata, si stava insieme, in un clima di vera confidenza, di apertura, di aiuto reciproco con un consiglio, con un incoraggiamento. Sarebbe bello ricreare questo spirito anche nella nostra quotidianità. È così che costruiamo la fiducia.
Orietta Berti e la fede…
Per me la fede è innanzitutto azione: quindi, sforzo di armonia, di bene verso il prossimo, di onestà, di amore. Noi non possiamo buttar via i talenti che ci sono stati dati da Dio. Chi ha in abbondanza può aiutare chi fa fatica. In un anno, quanta beneficenza possiamo fare? Questo è il Vangelo testimoniato. Mi fanno indignare l’egoismo, l’arroganza, il furto di diritti in danno dei poveri, lo sfruttamento. Se noi tutti rispettassimo la volontà di Dio, che è amore, se non volessimo “avere” sempre di più e ci accontentassimo, sarebbe un mondo meraviglioso.
Quale posto e quale significato attribuisce alla speranza?
Noi speriamo sempre, tutti, in un miglioramento. Speranza è cambiare in meglio, poi se non ci sarà, rimarrò delusa, ma intanto spero. La speranza è un bel sorriso, è volontà di star bene, è quel pizzico di armonia interiore che ci rende sereni.
Le tre sue canzoni che porterebbe sull’arca di Noè?
“Quando l’amore diventa poesia”, perché è una bella dichiarazione di sentimenti. Poi, ci metto “Tu sei quello”, perché nella vita bisogna sempre trovare “quello” che possa condividere tutto con te. E, infine, “Io ti darò di più”, che è il suggello di tutto il percorso di due persone.
G.Z.

Le fabbriche degli illusi
Dopo 56 anni di ribalta sempre accesa sulla sua vita di cantante, Orietta Berti consiglierebbe questa sua strada a un nipote?
No. Per ora non ne ho, ma la mia risposta è no, anche se fossero dotati nella voce. Bisogna essere ben corazzati per affrontare questo mondo, dove in genere si dura poco e il rischio della depressione è dietro l’angolo, se il successo non arriva o quando si è dimenticati dal pubblico. Sono realtà che tocco con mano. D’estate incontro spesso genitori di ragazzi che hanno fatto “X Factor”o gli “Amici” di Maria De Filippi e mi chiedono come promuovere il loro disco, visti i molti sacrifici fatti. Vedo che si creano fabbriche di malati e di illusi. Uno su mille ce la fa… e forse neanche quello, un po’ come nel calcio. Tutti, genitori compresi, vorrebbero la popolarità. Ma poi, che mestiere è? Se non sfondi, per tutta la vita ti arrampichi sugli specchi.
È un’opera di educazione che tocca anche alle famiglie, agli adulti…
Certo, vediamo bene però come vanno le cose. I genitori devono star vicini, andando oltre la crosta facile del “loro si divertono”. Sì, dico io: che si divertano nel sapere, nello studiare. Prima di tutto occorre trovare un buon lavoro, che faccia sentire realizzati e sereni. Evitiamo di costruire castelli di sabbia. Quando una persona non ha lavoro, non ha nemmeno dignità.
Che idea s’è fatta della dignità?
Ce n’è in giro sempre meno. Veniamo da stagioni con una politica imbizzarrita e screditata: e lor signori dovrebbero essere di esempio al Paese… Ammiro la dignità espressa con la compostezza da una moltitudine di persone che vanno avanti con pensioni da fame e non si lamentano.
Per quale merito in particolare prova ammirazione per i suoi figli?
Per come hanno saputo accudire, assistere e amare i loro nonni, con sensibilità e dedizione: a casa, all’ospedale, fino all’ultimo respiro. Hanno capito che il valore più grande è assistere i propri cari a oltranza, spendersi per gli altri, aiutarli nelle difficoltà. Ciò che i miei figli hanno fatto per i miei genitori e suoceri mi dà orgoglio.
G.Z.