Pasqua lontana, di ricordi sempre vivi. Quando al Giovedì Santo si “legavano” le campane

I riti della Settimana Santa anche quest’anno purtroppo saranno ristretti e circoscritti per via del “coronavirus”: ma almeno qualche funzione liturgica nelle chiese ci sarà, a differenza dell’anno scorso, quando le chiese rimasero chiuse. Dal Giovedì Santo alla notte del Sabato Santo con la benedizione del fuoco e dell’acqua e poi delle case, c’è tutta una letteratura che merita di essere conservata e tramandata. Per la memoria e per la storia.

Gianni Ballabio*

Tempo prezioso di tradizioni quello della Settimana Santa e della Pasqua, dentro quel contesto “sacro” della civiltà contadina, dove la religiosità aveva ampio respiro, quasi ritmando giorni e stagioni. Dalle Palme: “caminum insema/ sü i pass dal Signur” (Pino Bernasconi, “Camminiamo insieme/ sui passi del Signore”) alla mattina di Pasqua: “rinass, con Ti, Signur, /sbiotaa da tücc i cativeri/ fredell di pori Crist” (Fernando Grignola, “Rinascere, con Te, Signore, spogliati di tutte le cattiverie, fratelli dei poveri Cristi”).

Preghiera, gesti, mistero, silenzio, come quello delle campane dal giovedì al sabato. Tacciono ancora, è vero, nel triduo pasquale, ma chi se ne accorge? Allora invece la campana era la voce del villaggio, al centro come il suo campanile. “Sono legate le campane – diceva la gente – e aspettava che si slegassero” (Ugo Canonica). Silenzio velato di mistero, ma rotto dal fracasso delle “trabaccole”: al mattino, a mezzogiorno, alla sera e per chiamare alla chiesa. Scrive Angelo Frigerio, parlando di Rovio: “la Pasqua dei miei anni d’infanzia per noi ragazzi, costituiva anzitutto un’occasione privilegiata per radunarsi in gruppo e gioiosamente percorrere le stradette del nucleo muniti di solide raganelle costruite artigianalmente, poiché, in quei giorni, ricordando la passione di Cristo, le campane rimanevano mute”. E parla di raganelle “costruite con legno di castagno e con gli ingranaggi, o rotelle, e le linguette ricavate dal legno di corniolo o di bosso”. Diverso il rumore dei “tableck”, così descritti da Andreino Pedrini, che parla di Faido: “Una tavoletta di legno duro, di forma rettangolare, con incastrato, al centro, un supporto che regge una mazza, pure di legno, fissata a un perno attorno al quale ruota con moto semicircolare”.

Scrive Giovanni Bianconi: E sona ghiraghèra/ invece da campann:/sta sü da cò, Giovann! / L’è tornaa primavera”. (“E suona la raganella/ invede delle compane:/ su allegro, Giovanni!/ È tornata la primavera”).

Vittorino Moresino, parlando di Morbio Inferiore, ricorda “il trabaculun; una cassa con dei martelli e una manopola da far girare. Faceva un rumore dell’altro mondo. Le campane non suonavano in quei giorni. Si diceva che venivano legate. Tiravano su le corde fino al primo piano del campanile e chiudevano a chiave il cancello. Guai a suonarle. Anzi, per paura che qualcuno lo facesse, il sagrestano teneva in tasca la chiave del cancello fino al Sabato Santo. Non si fidava a lasciarla in sacrestia”.

Lavanda dei piedi
Lavanda dei piedi. Anche quest’anno non ci sarà

Una mano di calce e inverno alle spalle

Pasqua non era soltanto pulizia dell’anima, ma anche della casa. “Ricordo – scrive Ugo Canonica – che proprio prima di Pasqua era il momento propizio per dare una mano fresca di calce alla cucina annerita dal fumo”. Allora non c’erano gli impianti di oggi, ma camino e stufa a legna, con conseguenze scontate per la cucina che era e veniva chiamata “la caa”, la casa. Quella mano di calce, pure disinfettante, significava l’inverno alle spalle, spesso segnato da fatica e miseria, per respirare l’aria nuova della primavera, sperando nel tempo buono in quel vivere della terra, così legato ai capricci delle stagioni.

Tutti “si davano un gran da fare. Le massaie, lungo la sponda del Roncaglia, a lucidare come specchio, con sabbia e cenere, tutto il rame e le posate; gli uomini sotto il portico, a riordinare i rozzi arnesi, quindi a scopare con la ramazza il cortile, la stalla e l’aia, ché il giorno dopo sarebbe venuto il curato a benedire le case”, scrive Renato Zariatti, in “Briciole di storia novazzanese”.

Una visita annuale: attesa con trepidazione. “Mia mamma – ricorda Vittorino Moresino – mi diceva di stare attento per avvertirla, quando lo vedevo scendere dal bosco in alto verso la nostra frazione. Era bello uscire nella primavera e stare ad aspettare il curato. Gli alberi erano già fioriti e quando quel piccolo corteo usciva dall’ombra degli alberi sulla strada non asfaltata, il sole faceva riflessi stupendi con il secchiello dell’acqua santa. Erano immagini molto belle che ritrovo ancora. Era una festa quella benedizione, tanto attesa”.

Eucaristia, cuore della Pasqua e del cristianesimo
Eucaristia, cuore della Pasqua e del cristianesimo

Parroco e chierichetto per la benedizione delle case

Da una contrada all’altra era un continuo richiamo sull’avvicinarsi del parroco. Con lui il sagrestano “che recava sul braccio un capace cavagno” per le uova e i chierichetti “con l’acquasantino e l’aspersorio”, precisa ancora Zariatti, sottolineando che “era particolarmente sentita questa breve cerimonia in ogni focolare”. La gente si faceva il segno della croce davanti a quel latino solenne e familiare: “Pax huic domui et omnibus habitantibus in ea”. Era l’augurio di Pasqua. “Pace a questa casa e a tutti coloro che l’abitano”. Di casa in casa e di anno in anno, i cambiamenti erano lì da vedere. Una foto nuova sulla “credenza” accanto ad altre ingiallite, nel ricordo dei morti. Un vagito dalla culla. I vecchi sempre più vecchi. I ragazzi che arrossivano nel farsi il segno della croce e si inginocchiavano impacciati o a volte non volevano più farlo. Mentre si delineava un nuovo scenario: lasciata la campagna per la stazione o la banca, il televisore in un angolo, il telefono che squillava nel bel mezzo della benedizione, obbligatoria anche per la stalla.

A volte giungeva pure il padrone, che non lavorava la terra, la possedeva. Severo e solenne dava la mano al curato e mostrava bene l’offerta che consegnava alla fine. Gli altri, quelli della giornata sui solchi, si toglievano il cappellaccio e facevano il segno della croce, sperando che quella benedizione portasse buono, altrimenti nel tremendo novembre della resa conti sarebbe stata grama. Perché il padrone (“nuvembar l’è cain o sa paga ul ficc o sa fa san martin” / “Novembre è spietato, o si paga l’affitto o si fa trasloco”) non voleva storie e uno più uno doveva sempre fare due. Era inutile parlargli di temporale, grandine o dell’acqua non giunta al momento buono.

Quella proprio di Pasqua, perché “april ogni gota un baril” (“aprile, ogni goccia un barile”), mentre l’ulivo benedetto delle palme era conservato come una reliquia, perché “l’offerta a Dio dell’ulivo benedetto e della preghiera sarà propiziatrice sul raccolto, in pericolo per la grandine” (Ottavio Besomi).

Argent d’uliv benedett / ch’a disseda la primavera / in dal sgorataa di merli / a la prima niàda, / suu ch’a rinvigoriss / ul cör da la gent / in d’una scaia da ciel blö”, scrive Fernando Grignola (Argento d’ulivo benedetto/ che sveglia la primavera/ nello stornellare di merli/ alla prima covata,/ sole che rinvigorisce/ il cuore della gente/ in una scaglia di cielo blu”).

Oggi si ricorda l'istituzione dell'Eucaristia nell'Ultima Cena
Oggi si ricorda l’istituzione dell’Eucaristia nell’Ultima Cena

E bagnarsi gli occhi al suono delle campane

Poi veniva il sabato santo. Finalmente, dopo tanto silenzio, le campane si scioglievano: “i campan, dolorè de ier / in sto momente de pas / fora a sbalze i canta” (“Le campane, meste di ieri/ in questo momento di pace/ fuori a sbalzo cantano”), scrive Ugo Canonica in dialetto di Bidogno. Era “l’annuncio della Risurrezione. Tutti, allora, grandi e piccini correvano alla rongia o sulla riva del Roncaglia a bagnarsi gli occhi, perché dicevano, ogni acqua corrente, durante i dieci minuti in cui suonano le campane della Resurrezione, acquista un potere taumaturgico…” (R. Zariatti).

”Quando suonava la campana – ricorda Vittorino Moresino – bisognava andare subito a bagnarsi gli occhi. Se si era per strada, si doveva correre alla prima fontana e una volta bagnati gli occhi, non bisognava asciugarli, come ci ripeteva la mamma. Queste cose mi sono rimaste impresse”. Secondo alcuni, questa tradizione di bagnarsi gli occhi al suono delle campane che annunciavano la Risurrezione proteggeva dalle morsicature dei rettili.

Il mattino era ancora dei ragazzi, puntuali al “rito del fuoco santo, che si celebrava all’alba del sabato”, prima che giungesse con la riforma liturgica la veglia della notte. “Due o tre giorni prima – annotava ancora Zariatti – i ragazzi preparavano il pagliazzo che era poi un fascetto di paglia arrotolato e agganciato con fil di ferro attorno a un bastone a mo’ di torcia. Non appena il fuoco era benedetto sul sagrato della chiesa, essi accendevano i pagliazzi alla fiamma di quel tipico falò, poi via a gambe levate per il paese, nelle frazioni, entrando in ogni casa a sbriciolarvi sul focolare un po’ di quella roba ardente di fuoco sacro”. Non mancavano i furbi, in giro con un ”pagliazzo che nemmeno aveva visto dove fosse il sagrato della chiesa”. Quel portare ul föc sant è così ricordato da Vittorino Moresino: “dove c’erano persone anziane, sollevavamo il primo coperchio della stufa, quello più piccolo, e facevamo cadere la brace benedetta sulla cenere”.

*Nato come comunicatore, vocazione che ha coltivato e sviluppato in continuazione, Gianni Ballabio non si è mai fermato nelle posizioni – pure ragguardevoli – che ha raggiunto. Dapprima è stato docente di scuola media, poi è diventato direttore della scuola media di Balerna e, in parallelo si è pure impegnato in politica, al servizio della sua comunità, a Morbio Inferiore, e per la Diocesi di Lugano. Ha comunicato con molti linguaggi, considerando di volta in volta i diversi destinatari: gli allievi, i lettori di giornali e riviste con i quali ha collaborato e continua a farlo, fino al teatro, autore di molti testi messi in scena. Possiede un linguaggio che raggiunge il lettore e lo spettatore, con perfetto mix di intelligenza e sensibilità.

Foto: Luciano Colotti