“Leggete, staccatevi dagli schermi. Gli schermi vi divorano, la lettura vi nutre. Gli schermi vi svuotano, i libri vi riempiono. Fa tutta la differenza. La letteratura e i libri vi permetteranno di scoprire quanto siete unici e fino a che punto non assomigliate a nessun altro. È quello che fa l’umanità. Ogni persona è unica. Ed è la letteratura che ce lo insegna”. Così Bruno Le Maire, ministro francese dell’Economia, si è rivolto alle nuove generazioni in un appassionato discorso diventato virale sui social.
(da “la Repubblica”)
Pietro De Luca
Per finire nella barbarie non sono necessariamente richiesti grandi eventi o improvvisi capitomboli. Nella barbarie si finisce a piccoli passi.
Oggi possiamo registrare alcuni fenomeni. Per esempio. Il turpiloquio, la moda dell’insulto, l’offesa alla dignità della persona, tutti mali di cui cominciamo ad avvertire peso e condizionamento insopportabili, poiché aprono dinanzi ai nostri occhi derive irrefrenabili.
Poi ci chiediamo: ma come abbiamo fatto ad arrivare sin qui? Avremmo bisogno di una memoria vivente, di testimoni del tempo che fu. Non è necessario che siano moralisti, basta una compilazione notarile.
Ci direbbero, per esempio, quando e come la televisione e la radio hanno fatto entrare il linguaggio del famigerato gruppo degli amici al bar nei loro intrattenimenti più o meno seriosi.
Esaminiamo la televisione. Fino a qualche decennio addietro confezionava programmi per noi accomodati sul divano. Sapeva di entrare in casa nostra ed era per questo che adottava un certo linguaggio unito al decoro e finanche all’eleganza dei modi e del vestire. Poi vennero i presentatori e i moderatori di certe trasmissioni che di tanto in tanto invitavano gli ospiti a spiegarsi meglio per “quelli che ci ascoltano da casa”. Come se i convenuti in uno studio televisivo potessero essere in qualche modo i detentori di un conversare solipsistico a loro soli destinato e noi telespettatori quasi degli abusivi un po’ cretinetti, bisognosi di ulteriori delucidazioni.
Dalla televisione per noi a quella senza di noi
Eccola lì: una televisione che si parlava, ma non si rivolgeva più a noi. Un altro passo e siamo giunti alla televisione senza noi, alla televisione dei cosiddetti salotti televisivi. Sono quelli nei quali si riuniscono un gruppo di amici o di conoscenti. Fanno, appunto salotto. Una telecamera li riprende e li rende disponibili. Noi, accomodati di qua dello schermo, ci siamo tramutati in quelli che vedono quello che si dicono e fanno. Non siamo più l’interfaccia o i destinatari ai quali, in qualche modo, render conto, ma solo coloro che vedono perché lo vogliono. In quei salotti può avvenire di tutto, è come se non ne debbano rendere conto. Alla fine si tratta di una valanga che precipita, casca addosso a chi la guarda e finisce per “salottizzare” la vita intera. Una specie di scuola per vivere, parlare, pensare e comportarsi alla sua stregua.
Un tempo ci fu la lotta, o almeno l’argine, al sottinteso, già molto audace. Oggi si registra l’esplicito, chiaro e compiaciuto. C’era anche un certo andare sulla palla o sul pallone, nelle discussioni come nelle partite di calcio. Oggi c’è il lanciarsi sull’uomo che rivela la perdita del proprio ruolo e dell’altrui dignità. Alla materia del contendere o al pallone da recuperare si preferisce far cadere l’interlocutore o l’avversario e tramutarlo in un nemico, dopo averlo, verosimilmente, pensato tale.
Quando rimane solo la vittoria del predone
Sporcato il linguaggio, deteriorato il conversare e sottostimato il proprio simile, resta solo la vittoria del predone. Forse non sa la televisione, ma non lo sanno neanche i media e i social che ormai la loro è incidenza preminente sul tessuto sociale del popolo. E che quel popolo – questo popolo – non avendo altri maestri, finisce per ascoltare e uniformarsi solo a loro. Un tempo si diceva “l’ha detto la radio”, “l’ho visto alla televisione” come ad indicare l’autorevolezza dello strumento. Oggi non si dice più, forse perché non esiste alternativa. Diciamo e ripetiamo, per non dire facciamo noi stessi, come si fa in televisione, essendo diventata maestra indiscussa, neanche più opinabile, ma solo sorgente di acqua inquinata.
Si accusa stanchezza per simile appiattimento. E questo è un bene. Sarà necessario far retrocedere la televisione al suo rango di elettro-domestico. Come per la lavatrice e la lavastoviglie, sarà il caso di ricordare a noi stessi, che esso (elettrodomestico) è dotato di un pulsante: si accende e si spegne. Si accende quando serve e per cosa serve. Compiuto il servizio, si spegne. Poi si torna ad utilizzare, per vivere, parlare e agire quel grande patrimonio costituito dalla mente e dal cuore di ogni uomo che ama la libertà e la ricerca della propria strada, ben consapevole che non si vendono in nessun mercato.
In un mondo globalizzato e sempre più conformistico, occorre conservare le alte doti di creatività che l’uomo possiede in ogni campo: è tempo di sprigionare singolarità ed eleganza, originalità e coraggio, andando controcorrente. E questo per recuperare quell’umanità sbiadita che tutti ci portiamo un po’ addosso. Incautamente.
Giornalista, commentatore di fatti di cronaca e di costume, di letteratura, soprattutto di giovani, religione, scrive per i giornali della sua terra – la Calabria dove è parroco di Paola, in provincia di Cosenza – e per quotidiani e riviste anche estere. Ha collaborato per anni al “Giornale del Popolo”, è coautore di libri (suoi scritti figurano nei libri “David Maria Turoldo, Il coraggio di sperare”; “Il dono di Turoldo”, “Segni di terra. Sul cammino dei viaggiatori dello spirito”.
