Come e quanto sono cambiate le pratiche religiose con la pandemia? E la frequenza nelle chiese? Un viaggio dentro l’anima della comunità in quest’anno sconvolto in molte abitudini dal coronavirus e dalle preoccupazioni e paure che lo stanno ancora contrassegnando. Dice don Mauro Bassanelli: «La pandemia ci ha fatto riscoprire l’essenza del messaggio evangelico: meno attivismo, meno corse, meno “fare” e in compenso supplemento di sensibilità e attenzione e maggiore vicinanza alle persone nella loro quotidianità vissuta».
Da un anno a questa parte stiamo vivendo quello che tutti proviamo con sacrifici e sofferenze sulla nostra pelle. E per il secondo anno consecutivo ci troviamo a vivere una Pasqua sacrificata, “ristretta” nella partecipazione ai riti molto suggestivi che si celebrano dalla Domenica delle Palme (o degli Ulivi) alla domenica della Risurrezione, passando dalla benedizione del fuoco a quella dell’acqua. Anche nel 2021 non ci saranno lavande dei piedi nelle chiese, non si faranno processioni con la statua del Cristo morto, abolite anche le manifestazioni di cui è ricca la tradizione cristiana con figuranti in costume che rievocano la Passione di Gesù. L’anno scorso le chiese rimasero addirittura chiuse: ed è davvero un peccato che poi – ritornati in progressiva libertà, con l’illusione di aver debellato il virus – non si sia pensato, ad esempio in giugno, di unire in una grande celebrazione i misteri/eventi della Pasqua, dell’Ascensione (21 maggio), della Pentecoste (31 maggio), della Trinità (7 giugno) e del Corpus Domini (14 giugno). Quanto sta accadendo dal marzo 2020 supera ogni soglia del reale in quest’epoca della modernità. Un cataclisma mondiale. “L’anno scorso eravamo più scioccati, quest’anno siamo più provati. E la crisi economica è diventata pesante” – ha detto Papa Francesco all’Angelus della Domenica delle Palme, chiedendosi poi “in questa situazione storica e sociale, Dio cosa fa? Prende la croce, si fa carico del male, soprattutto quello «spirituale, perché il Maligno approfitta delle crisi per seminare sfiducia, disperazione e zizzania. E noi come Maria dobbiamo prendere la nostra parte di sofferenza, di buio, di smarrimento… Lungo la Via Crucis quotidiana incontriamo i volti di tanti fratelli e sorelle in difficoltà: non passiamo oltre, lasciamo che il cuore si muova a compassione e avviciniamoci”.
Dopo un anno ci ritroviamo in una spessa foschia. Il “covid-19” continua a colpire: ha cambiato pelle, è diventato mutevole e sta obbligando a rincorse frenetiche i ricercatori e gli specialisti in materia. C’è la versione britannica, quella brasiliana, una africana e forse ci sarà qualche altra provenienza prossima. Ciascuno di noi, che voglia riconoscerlo o meno, è rimasto segnato da questa esperienza ed è cambiato nel suo carattere, nei rapporti con gli altri. E ciascuno è in grado di fare il proprio bilancio personale del “pedaggio” pagato al virus giunto dalla Cina, infettando poi il pianeta. Secondo i dati OMS del 9 marzo, i casi di pandemia nel mondo sono a quota 130 milioni; i decessi sono stati calcolati in 2.790.000. Nessuno sa ipotizzare quando usciremo a “riveder le stelle” in libertà, ritrovando le nostre relazioni (si tratterà anche di vedere come le relazioni… troveranno noi, perché parecchi tratti delle nostre identità interiori sono cambiati). Non è un teorema da dimostrare ma un’evidenza che ognuno di noi prova: la libertà si sostanzia di relazioni e queste vivono e si alimentano di una materia prima che si chiama appunto libertà. La giornalista e scrittrice Anna Carissoni ha incontrato un prete con il quale ha tentato di abbozzare una radiografia di “noi e l’anima”. Come la mettiamo? Ecco il referto che ne è uscito dalle riflessioni con don Mauro Bassanelli.
G.Z.

Fotografie: Luciano Colotti
Ma nella bufera della pandemia “non è venuto a mancare l’essenziale del messaggio evangelico”
Anna Carissoni*
Dopo un anno di abitudini sconvolte anche nelle pratiche religiose, secondo lei don Mauro Bassanelli come e quanto sono mutati l’approccio tra i banchi, l’affluenza dopo la riapertura delle chiese, il rapporto con la fede?
“Sicuramente tante cose sono cambiate, ma fin dal primo lockdown ho registrato nei miei fedeli una costante affluenza alla celebrazione eucaristica, nonostante le chiese vuote e nonostante la mia sensazione come di straniamento. È stata in ogni modo un’assenza dolorosa, sofferta. Direi però che non è venuto a mancare l’essenziale del messaggio evangelico: ridotte tante iniziative e tante attività formative ed aggregative per adeguarci alle normative anti-contagio, hanno assunto maggiore profondità e maggiore intensità la celebrazione dell’Eucarestia e lo stile della preghiera. Anche l’azione caritativa, altro cardine della nostra fede, non è venuta a mancare: la nostra attenzione ai poveri si è fatta ancora più intensa e capillare: pacchi-spesa, telefonate, ascolto… Insomma, l’essenziale del mandato evangelico non si è ridotto, anzi….”.
Adesso che si possono di nuovo celebrare le liturgie dal vivo, seppur distanziati, la presenza dei fedeli è tornata quella di prima?
“La capienza delle nostre chiese si è ovviamente ridotta a causa del necessario distanziamento, e con essa anche la presenza dei fedeli. E pesano i posti vuoti lasciati dai nostri morti per Covid. C’è ancora molta paura, e la gente apprezza e condivide tutte le misure di prudenza che abbiamo adottato. A mio parere il Covid-19 ha fatto emergere quanto era negli animi anche prima della pandemia, e cioè da un lato ha reso ancora più convinta la partecipazione di quanti già percorrevano con grande convinzione il loro cammino di fede, dall’altra ha ulteriormente allontanato quanti già pensavano che della fede si può anche fare a meno”.
La maggiore convinzione non può essere dovuta al fatto che nelle situazioni difficili si tende ad “aggrapparsi” a qualcosa di consolatorio, qualcosa che possa aiutarci a non cedere alla disperazione?
“Non credo si tratti di questo, non vedo la ricerca di qualcosa di puramente consolatorio: mi pare di vedere, invece, la riscoperta del fatto che della fede non si può davvero fare a meno, che esiste nelle persone un bisogno autentico di celebrare momenti di fede e di appartenenza ad una comunità”.
Le restrizioni dovute alla pandemia hanno colpito e colpiscono in modo particolare i ragazzi e i giovani…
È vero, per questo abbiamo cercato in tutti i modi di approfittare dell’opportunità di mantenere i contatti con loro tramite i social, e lo facciamo tuttora, con il telefono, con WhatsApp, con i messaggi… Conosciamo benissimo la fatica che fanno i ragazzi a non potersi riunire in presenza, l’importanza fondamentale che ha per loro la relazione; perciò non mancano le proposte per convocarli – Messe per gli adolescenti, ecc… – nel tentativo di non farli sentire abbandonati a se stessi”.

“Meno cose e più attenzione alle persone”
Ma i cambiamenti hanno inciso profondamente anche sul vostro essere sacerdoti?
“Esternamente sì, basti pensare che abbiamo dovuto cambiare anche il modo di incontrarci tra noi: riunioni online, e anche preghiere online, come la lectio divina davanti al computer… E poi c’è stato un certo disorientamento: da bravi preti, eravamo sempre presi dal fare, dall’organizzare, da mille attività… Il Covid ci ha lasciato più tempo libero, e perciò anche la necessità di inventarci nuovi modi e nuove iniziative per stare vicini alla nostra gente. Credo inoltre che d’ora in poi, come sacerdoti, dovremo darci tempo per mettere a punto una rinnovata azione pastorale, sulla scorta dell’enciclica Evangeli gaudium di Papa Francesco: una revisione, insomma, che riparta dall’essenziale, perché forse spesso abbiamo privilegiato il fare rischiando di perdere l’essenza della nostra presenza nella comunità, cioè il rapporto con le persone. Meno attivismo, dunque, e maggiore profondità nel rapporto e nelle relazioni umane con chi incontriamo”.
Che bilancio complessivo si sente di fare don Mauro di quest’esperienza che ci ha cambiato e sta cambiando la vita?
“Durante la prima ondata della pandemia, mi sono sentito spesso impotente ed inutile: mi sentivo in colpa perché non potevo fare di più per la mia gente se non accompagnare, in solitudine, funerali tristissimi, senza poterle stare vicino se non con la preghiera e con le periodiche telefonate… Ebbene, ho ricevuto una quantità di messaggi, scritti e telefonici, che mi pregavano di non mollare, di resistere, ed ho capito che, nonostante la situazione drammatica e nonostante l’assenza fisica, il mio essere prete continuava per tanti fedeli a costituire un punto di riferimento imprescindibile, una sorta di collante della comunità, il garante del loro cammino di fede diventato di colpo più doloroso e più faticoso… E questo è anche il messaggio che i miei fedeli mi hanno lasciato come programma per la rinascita e la ripresa che tutti ci auguriamo: meno corse, meno attivismo e maggiore attenzione alle singole persone, maggiore vicinanza soprattutto a quanti sono segnati dalla fragilità e dalla sofferenza”.
*Insegnante e giornalista, collabora a testate italiane e svizzere, occupandosi con passione della difficile realtà educativa del nostro tempo e dei problemi del vivere in montagna. Le sue numerose pubblicazioni dedicate a questi argomenti hanno tutte lo scopo di favorire l’approfondimento, la riflessione ed il ragionamento critico, finalizzati alla consapevolezza ed all’impegno sociale e civile.
