San Giuseppe, l’uomo del silenzio di fronte alla grandezza del mistero

Sappiamo che egli era un umile falegname, promesso sposo di Maria; un «uomo giusto», sempre pronto a eseguire la volontà di Dio manifestata nella sua Legge e mediante ben quattro sogni. Dopo un lungo e faticoso viaggio da Nazaret a Betlemme, vide nascere il Messia in una stalla, perché altrove «non c’era posto per loro». Fu testimone dell’adorazione dei pastori e dei Magi, che rappresentavano rispettivamente il popolo d’Israele e i popoli pagani.
Ebbe il coraggio di assumere la paternità legale di Gesù, a cui impose il nome rivelato dall’Angelo: «Tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». Come è noto, dare un nome a una persona o a una cosa presso i popoli antichi significava conseguirne l’appartenenza, come fece Adamo nel racconto della Genesi.
(Papa Francesco, dalla Lettera Apostolica “Patris Corde” per San Giuseppe)

Gianni Ballabio*

Matteo e Luca nei loro Vangeli presentano la genealogia di Gesù. Una processione di nomi e di volti. Matteo parte da Abramo e scende lungo i secoli. Luca s’avvia da Giuseppe e risale il fiume del tempo. Così lungo i secoli risuona il verbo ‘generare” fra nostalgie e speranze, profezie e rimpianti, fedeltà e tradimenti, gesti di eroismo e negative chiusure. Ma con Giuseppe quel verbo non compare.
“Giuseppe sposò Maria. E Maria fu madre di Gesù”, scrive Matteo.
Gesù aveva circa trent’anni, quando diede inizio alla sua opera. Secondo l’opinione comune egli era figlio di Giuseppe”, indica Luca.
Pensare a Giuseppe vuol dire ritrovare la serenità della sua bottega di artigiano: profumo caldo di legno e odore vivace di resina; segatura che penetra ovunque e trucioli lasciati dal suo piallare deciso. Sguardo fermo di chi conosce il mestiere; mano sicura e callosa; precisione e silenzio. Magari, anche lui, come tanti artigiani, fischiettava.

Raffaello, “Sposalizio della Vergine”, 1504, olio su tavola, Pinacoteca di Brera
Raffaello, “Sposalizio della Vergine”, 1504, olio su tavola, Pinacoteca di Brera

Il carpentiere voluto da Dio per Gesù

Allora, San Giuseppe, da dove cominciamo con la tua storia?
Ho sempre cercato il silenzio e di me i Vangeli dicono poco. Quasi nulla. Ho imparato ad apprezzare il silenzio nel mio mestiere che vuole precisione: non lavori bene, se chiacchieri. Dopo sei costretto a rifare: tempo e soldi sprecati. Bastano pochi millimetri e la porta non entra più nei cardini. Anche sul generare ti rispondo con il silenzio: davanti al mistero non ci sono risposte.

E poi incontri Maria.
Era di Nazaret. La conoscevo da sempre. Era bella e me ne sono innamorato. Ma ogni innamorato vede sempre bella la donna che ama. La più bella di tutte. Ero giovane; avevo un mestiere sicuro fra le mani e potevo metter su casa. Ogni cuore del resto ha i suoi sogni. Non posso certo nascondere di aver provato rabbia e sofferenza a quella scoperta. Vengo da un popolo che lapidava le adultere e permetteva allo sposo il ripudio. Quel pensiero non mi dava pace. Di notte non dormivo e di giorno maltrattavo anche il legno nel chiuso della bottega. Poi la voce e il sogno: “quello che è in lei è opera dello Spirito Santo”.

Sei un uomo concreto: come hai potuto lasciarti convincere da un sogno?
Il credere va al di là dell’evidenza e dello scontato, altrimenti non sarebbe credere. Quel sogno era una rugiada benefica. E cosa sia la rugiada per il mio popolo basta capirlo dai salmi. Ci sono linguaggi che sfuggono alle nostre parole. Il messaggio dell’angelo era oscuro, ma nel mio cuore diventava limpido. Forse ero pronto per accoglierlo. Da quel momento la mia vita è divenuta un silenzio sereno, accanto a quella donna che amavo e a quel figlio che doveva nascere. Il resto sono solo parole.

Così hai preso la strada di Betlemme.
Per forza. Per obbedire alla superbia di un sovrano straniero che voleva contarci. Mi risuonava nel cuore la voce orgogliosa del mio popolo che aveva smarrito libertà e splendore. Fino a Betlemme, la città di Davide, perché il falegname di Nazaret discende dal grande re. Un viaggio alle origini fra quelle carovane di disordine. E alla sera, stanchi morti, bisognava darsi da fare per trovare un posto.

Cose pensasti in quella notte di poesia?
La poesia l’avete inventata voi. Per me era solo povertà e stanchezza. Del resto ero troppo indaffarato per riuscire a pensare. Ci sono momenti così concreti che superano in dignità tutte le teorie di questo mondo. Mi diedero una mano i pastori: solo i poveri sanno aiutare i poveri.

“La fuga in Egitto”, di Giotto (1303-1305, affresco, Cappella degli Scrovegni, Padova)
Giotto, “La fuga in Egitto”, 1303-1305, affresco, Cappella degli Scrovegni, Padova

La gioia del lavoro, la serenità della casa

Poi la presentazione al tempio, la fuga in Egitto, l’incontro con i dottori, i trent’anni di Nazaret.
Quanto avveniva era il seguito di quella voce. Io avevo il mio lavoro, Maria e Gesù da amare nella semplicità di tante giornate, spesso uguali, come per tutti. Alzarsi presto, aprire la bottega, starci fino a sera. Era bello il mio mestiere; mi piaceva ricavare da un blocco di legno una tavola, una panca, una sedia. Facevo tutto io, dall’inizio alla fine. Alla sera ritrovavo la serenità della mia casa. Sono contento che di me non si sia più parlato: il silenzio è un dono raro. La gente che continua a parlare, soprattutto di se stessa, mi dà un fastidio tremendo. Sono come le zanzare. Ce ne saranno sempre.

A Nazaret cosa pensavano di voi?
Quello che volevano, a me non interessava. Chi ama il silenzio, impara anche a non ascoltare. Ripercorrevo nel cuore il cammino del mio Popolo. La voce dei nostri padri e dei profeti levigava il mio cuore, come la pialla passa ripassa aspra e delicata sul legno, par farlo più bello. Ognuno del resto ha la sua storia e la sua conversione. Anche se le parole del sogno rimanevano mistero e speranza.

Ma questa speranza non assomiglia forse a una sinfonia incompiuta. A un sogno non completamente afferrato, come una giornata fermatasi all’alba senza conoscere la forza del sole?
Queste sono solo parole. Se fai una scelta, poi vai avanti. Senza rimpianti e compromessi. Voler dire se una vita è realizzata è non avere senso pratico. Se tu mi chiedi una panca, io te la faccio: la puoi controllare, misurare, giudicare. Ma chi sa leggere invece nel cuore?

*Nato come comunicatore, vocazione che ha coltivato e sviluppato in continuazione, Gianni Ballabio non si è mai fermato nelle posizioni – pure ragguardevoli – che ha raggiunto. Dapprima è stato docente di scuola media, poi è diventato direttore della scuola media di Balerna e, in parallelo si è pure impegnato in politica, al servizio della sua comunità, a Morbio Inferiore, e per la Diocesi di Lugano. Ha comunicato con molti linguaggi, considerando di volta in volta i diversi destinatari: gli allievi, i lettori di giornali e riviste con i quali ha collaborato e continua a farlo, fino al teatro, autore di molti testi messi in scena. Possiede un linguaggio che raggiunge il lettore e lo spettatore, con perfetto mix di intelligenza e sensibilità.

Nell’edizione di domani:
Giuseppe e Maria. La nostra storia d’amore”, testo di Andrea Mardegan che presenta il falegname di Nazaret proiettato nella luce del mistero pasquale.