Viaggiatore che non conosce frontiere, attraversa i cinque continenti per raccontare umiliazione, sfruttamento, oppressione, schiavitù, fame, miseria, guerra, terrore e morte. Un “barometro viaggiante” che spesso, quando si sposta, indica brutto tempo. Comincia visitando amici missionari che sono nelle periferie del mondo: persone libere e concrete che conoscono le asprezze esistenziali perché le vivono e le condividono ogni giorno con la propria gente.

Questo di Giorgio Fornoni è un documentario realizzato poco più di un anno fa su quell’imponente fiumana di persone che – attraversando il Messico – cercavano e continuano a cercare una nuova vita e un diverso futuro negli Stati Uniti, allora sotto la presidenza di Donald Trump e oggi – dal 20 gennaio scorso – con Joe Biden. “Il muro più grande – commenta oggi Fornoni – è quello che c’è nella testa di alcuni governanti, quelli che non possono considerare che anche altri possano aver bisogno di un po’ di umanità. Chi parte, lascia spesso tutto, a rischio della stessa vita: dovremmo condividere, ma non ne abbiamo la forza. Ho voluto indagare, capire che cosa spinge queste ondate di persone dal Centro America verso gli USA cercando di appagare i sogni. È un viaggio che va da Chiapas, ai confini del Guatemala su, su fino al muro che Trump ha celebrato come monumento di protezione e difesa: è il simbolo della crudeltà che non vuole fermarsi neppure di fronte ai bambini strappati ai loro genitori. Il principio è sempre quello efficacemente sintetizzato da Max Frisch: “Volevamo braccia, sono arrivati uomini”. Lo scrittore svizzero denunciava la xenofobia che circolava in Svizzera contro gli immigrati che arrivavano dall’Italia e che portarono alle iniziative di Schwarzenbach e Oehen. Il treno seguito dal reporter Fornoni è un merci dove si affollano moltitudini di disperati, che affrontano migliaia di km in condizioni inimmaginabili. Ma c’è sempre una pietà umana che fa da contraltare a egoismi e chiusure d’ogni genere. Toccante la conclusione di Fornoni: “Ho avuto la fortuna di trovare un gruppo di donne che da 24 anni si mobilitano per offrire da bere e da mangiare a questi dannati di un inferno moderno. Mani che si protendono dal treno verso chi porta cibo: sono attimi che riconciliano però con l’uomo in un incontro di gratuità, di solidarietà”.
Giuseppe Zois
Giorgio Fornoni*
La Grande Carovana che ha tentato di forzare il blocco tra il Sud e il Nord dell’America si è dovuta fermare contro il Muro, invalicabile come quello di una fortezza, eretto al confine tra Messico e Stati Uniti. Erano quasi 10mila migranti, un’ondata umana che confidava nel numero per superare la grande barriera posta all’ingresso del Primo Mondo, il paradiso della ricchezza e del benessere che attrae come un miraggio i disperati di tutto il continente americano. Ma il numero non è bastato contro la mobilitazione militare, tecnologica e politica comandata da Trump, il cavallo di battaglia della sua campagna elettorale. I desperados hanno tentato in tutti i modi di superare l’invalicabile barriera di muri, sensori, reticolati, sbarre che ha trasformato il confine tra Messico, California e Texas in un inferno di frustrazione e tragedia, nel simbolo di una divisione disumana tra ricchi e poveri, tra chi ha un passaporto e chi è destinato a vivere “indocumentado”, senza documenti, tra chi sogna una vita migliore e chi quella vita ce l’ha già e non intende spartirla con nessuno.
È cominciato il quadriennio di Biden che ha subito annunciato nel suo discorso di investitura il 20 gennaio un nuovo corso in materia di immigrazione; si gira pagina rispetto al pugno di ferro di Trump che aveva nei suoi obiettivi quello di arrestare le schiere di migranti da un oceano all’altro, tra Tijuana, sulle rive del Pacifico a Ciudad Juarez e a Matamoros, sul Golfo del Messico. Un flusso che non si arresta, nonostante le barriere e che porta 500mila persone a tentare la sorte ogni anno. A rischio della propria vita, perché le gang del narcotraffico, i passatori del deserto (i famigerati “coyotes”) e la corruzione estesa a tutti i livelli, hanno trasformato la striscia di terra nel deserto dell’Ovest e quella segnata dalle sponde del Rio Grande in un cimitero a cielo aperto.
Il sogno senza fine di un’umanità disperata
Sono tornato in Messico, sull’infuocato confine di Tijuana, per capire cosa spinge migliaia di persone a premere ogni giorno alle porte del Nordamerica. Oggi l’attenzione si concentra sul nuovo corso che Biden darà alla sua ammiistrazione. Quello che interessava me per il mio reportage era invece capire come un’umanità disperata e bisognosa di tutto possa continuare a sognare quel passaggio impossibile, accampata a ridosso della barriera in un’attesa che potrebbe essere infinita. Il mio riferimento era un giornalista che vive a Tijuana e che conosce tutto di quella drammatica situazione, dove la via dei migranti si intreccia con gli interessi del narcotraffico, le trappole della prostituzione e del traffico di esseri umani. Victor mi ha portato là dove gli “indocumentados” sono costretti ad aspettare per mesi la risposta alla domanda di permesso al passaggio della frontiera che scrivono comunque. Chi garantisce per loro sono alcune organizzazioni umanitarie, le loro speranze aumentano se possono contare su parenti o amici già dall’altra parte. Nel tempo del mio reportage, il governo degli Stati Uniti ne vagliava non più di 50 al giorno e le respinge quasi tutte. Chi non può fare una domanda ufficiale è costretto da subito a tornare indietro. L’alternativa è quella di restare da clandestini in Messico per racimolare un po’ di soldi lavorando in nero, oppure tentare l’avventura, affrontando il rischio di affidarsi ai “coyotes”.
A gestire i migranti in attesa ci sono per fortuna alcune organizzazioni di volontariato. Uno dei centri più importanti è gestito dai Salesiani. Un grande refettorio coperto, capace di offrire un pasto caldo a più di mille persone al giorno, è letteralmente assediato dalla folla. “Noi diamo da mangiare una volta al giorno – mi dice padre Agustin Novoaleva –: abbiamo anche un presidio medico e una piccola farmacia per i casi più gravi. Il Muro incute timore, ma non ci ferma e, quando possiamo, aiutiamo la gente a chiedere e ottenere il permesso di attraversarlo. In teoria è possibile se possono dimostrare che conoscono qualcuno dall’altra parte e se hanno una qualche prospettiva di lavoro”.
Solalinde, il prete dei “Fratelli in marcia”
Visito un altro campo, gestito dai volontari della “Juventud 2000”. Centinaia di tende multicolori, una accanto all’altra affollano l’interno di un grande capannone, alla ricerca di una improbabile privacy. Qui donne e bambini sono bloccati per mesi in attesa che i loro figli, padri o mariti, lontani per lavoro, possano tornare a farsi vivi per pagar loro un passaggio o semplicemente decidere di tornare a casa, in Honduras, Guatemala, Nicaragua, Salvador. La donna qui diventa protagonista assoluta, esposta ad ogni sorta di violenza o prevaricazione. Questo diventa il terreno di caccia preferito delle bande criminali che illudono le più giovani per avviarle alla prostituzione. Una volta invischiate nella rete, non riusciranno più ad uscirne, ricattate in mille modi per continuare ad essere vittime di un sistema collaudato molto simile alla schiavitù.
A Città del Messico, ho incontrato Alejandro Solalinde, il prete di Oaxaca diventato il simbolo della assistenza spirituale ai migranti e della lotta al giro criminale che li soffoca e li uccide. Gira con una scorta governativa di quattro uomini armati e sulla sua testa pesa una taglia di un milione di dollari promessa dai clan del narcotraffico. Solalinde ha fondato una organizzazione per la difesa dei migranti, “Hermanos en camino” (“Fratelli in marcia”), denunciando le violenze e i soprusi alle quali sono costantemente esposti, le morti, le sparizioni. Sono oltre 20mila i migranti che vengono rapiti ogni anno in Messico dalle bande criminali e che spariscono poi senza lasciare traccia. Si calcola che la corruzione corrisponda in Messico al 10 percento del PIL nazionale.
“Il narcotraffico è una rete infetta che si estende dal Messico agli Stati Uniti – mi dice con i suoi modi diretti e senza esitazioni –. Si intreccia con il traffico delle armi, controllato dai nordamericani. A parole si vuole combattere la droga, ma poi si crea un sistema di scambio tra coca e armi. È in questo modo che gli Stati Uniti hanno fatto la loro politica negli ultimi decenni, destabilizzando tutto il Centro e Sudamerica soltanto per i propri interessi. Hanno esportato 200 guerre nel nostro continente. Non vogliono combattere la droga, ma solo controllarla, ne fanno un grande business. È questo che vogliono e mi meraviglia che là da voi non ve ne rendiate conto”.
La “Legge del Gelo” e la politica del bene comune
Due anni fa, Solalinde è stato candidato al Premio Nobel per la Pace. Lo ha perso, quasi certamente, dopo un incontro tenutosi a Bruxelles con i rappresentanti dell’Unione Europea, nel corso del quale si era espresso chiaramente sulle complicità dell’Europa con il governo del Messico e con gli Stati Uniti. Dal dicembre 2018 il Presidente del Messico è cambiato, ora è Andrés Manuel López Obrador e Solalinde si dice più fiducioso nella possibilità di un positivo cambio di rotta. Sotto il governo precedente, Solalinde aveva apertamente denunciato l’intreccio tra mafia e politica che aveva addirittura portato al governo alcuni esponenti del narcotraffico. Era stata proprio questa posizione a portarlo a polemizzare anche con l’Unione Europea, a suo dire troppo restia a condannare le violazioni dei diritti umani a danno dei migranti.
“Il Muro non serve a nulla – mi dice –. Il Muro è paura, espediente elettorale, un tranquillante per la paranoia nordamericana. La paura di perdere il nostro denaro, il nostro benessere, ci paralizza, rendendoci ancora più schiavi di questo sistema disumano. Ma il Muro non funzionerà, perché chi controlla l’entrata dei migranti non sono né il governo messicano né quello americano. È il crimine organizzato, o per meglio dire ‘autorizzato’, in troppi casi. Il principale trafficante di esseri umani in Messico è l’Istituto Nazionale di Immigrazione. Si passa sottoterra, nel deserto, con i coyotes, o con gli scafisti, attraversando le acque del Rio Grande e del Rio Bravo. Ma oggi si passa anche con gli autobus autorizzati, oppure con documenti falsi, sotto gli occhi delle sentinelle”.
Le denunce coraggiose di Solalinde gli hanno inimicato anche alcuni ambienti della Chiesa. Sente dalla sua Papa Francesco, ma non è un mistero che attorno a lui, in Messico ci sia un gelo preoccupante. “Io la chiamo la Legge del Gelo – dice in tono ironico –, non mi fanno la guerra apertamente, ma non sono ancora riuscito a incontrare un vescovo, tantomeno il cardinale Sarayete, che ho cercato tante volte. Nessuno mi riceve, alcuni confratelli non mi parlano. Forse perché faccio osservazioni sulle tante cose che non vanno e su quelle che loro dovrebbero fare ma non fanno. Mi accusano di protagonismo, di essere troppo mediatico. Io faccio politica, è vero, molta politica. Quella che mi interessa, però, è la politica del bene comune”.
“Las Patronas”, le donne che nella notte portano viveri ai migranti sul treno
Ma per capire cosa realmente provano, vivono, soffrono gli “indocumentados” che partono verso il sogno nordamericano, bisogna conoscere la Bestia. Chiamano così, in Messico, il treno merci che ogni giorno parte da Palenque, nel Chiapas, e che in sei giorni attraversa tutto il Paese diretto verso il valico di Tijuana. Su quel treno, che viaggia lentamente al punto da poter salire e scendere in corsa, viaggiano centinaia di persone, aggrappate alle scalette esterne, riempiendo gli spazi tra un vagone e l’altro, arrampicandosi sul tetto. Io ho intercettato la Bestia ad Amatlan de los Reyes, un paese di poche case non lontano da Vera Cruz, mentre attraversava di notte un tratto di foresta. Questo è il punto scelto dalle donne del presidio di “Las Patronas” per un gesto commovente di generosità. Cariche di bottiglie d’acqua, pane e generi di prima necessità, si sporgono sui binari per cercare di passarli ai migranti in corsa. È un atto gratuito e del tutto disinteressato, non privo di rischi per il passaggio del treno. C’è chi ha perso una gamba scivolando sulle rotaie, mi racconta Norma, la coordinatrice di un gruppo di 12 donne. Compie quella che considera la sua missione di vita da 24 anni, e solo per amore per il prossimo.
Le donne sono già sul posto quando arrivo in vista dei binari. L’arrivo del treno è segnalato a distanza dal fischio della locomotiva e questo è il segnale atteso nel cuore della notte. Le donne corrono con i loro fagotti, la gente a bordo del treno si sporge pericolosamente, in un mulinare di braccia protese. Per lunghi minuti è un frenetico scambio di acqua, frutta, sacchetti di riso e fagioli, brevi frasi spezzate, ringraziamenti. Queste persone non si conoscono, non hanno nemmeno il tempo per vedersi in faccia, ma l’emozione di quel brevissimo incontro è intensa e coinvolgente. Assisto a quel momento con grande commozione, conquistato dalla gratuità di quel gesto, che non chiede sponsor né ricompense. È povera gente che aiuta altra povera gente solo per mantenere viva la speranza, e senza chiedere nulla in cambio. È qualcosa di incredibile in un mondo che sembra oggi guidato soltanto dall’interesse, una lezione da non dimenticare. L’ultimo vagone passa sferragliando, di colpo piomba un silenzio irreale, mentre il treno si allontana nel buio con il suo carico di fantasmi senza nome.
In aumento esponenziale nonostante i proclami
“Oggi mi sento contenta e felice – mi dice Norma, con le braccia ormai libere dalle sue offerte –. Prima ero come cieca, andavo in chiesa, pregavo Dio ma non facevo ancora nulla di concreto. Poi ho conosciuto il treno dei migranti, la Bestia, e ho capito quale era il mio compito. Ho capito che amare Dio significa amare questa gente, cercare di aiutarla per quanto possibile. Loro mi dicono “che Dio la benedica, madre”, ma sono io che benedico loro, che li ringrazio perché mi fanno sentire importante, anche se le nostre vite si incrociano solo per un istante brevissimo”.
Le statistiche dicono che continua a salire la cifra dei migranti che si sposteranno tra Messico e Stati Uniti. Si parla di 600 mila o chissà quanti: aumentano da un anno all’altro e in modo esponenziale, nonostante i proclami, le retate, i muri e le barriere. La situazione politica confusa in Venezuela potrebbe segnare un nuovo balzo nel flusso migratorio verso il Nord. “I migranti non si fermeranno mai – continua Norma –: non c’è muro capace di fermarli. Per capirlo, basta conoscere ciò che li spinge lontano dai loro Paesi d’origine, la disperazione e la rabbia che hanno dentro. Pagheranno ancora di più alle mafie, rischieranno ancora di più. Ma finché non cambierà la situazione a casa loro, tutto sarà ancora peggio di prima”.
Proprio di recente, i governi di Canada, Stati Uniti e Messico sembra stiano concordando un investimento di 5 miliardi e mezzo di dollari per interventi di cooperazione e di aiuto allo sviluppo nei Paesi di origine.
* Reporter ricco di umanità e con esperienze nei 5 continenti, un giorno viene intercettato da Milena Gabanelli ed entrerà nella sua squadra alla RAI. Ha viaggiato tra pericoli e rischi, come quella volta a Sarajevo: sotto il fuoco dei cecchini, fu sfiorato dalla morte, insieme con la giornalista Maria Grazia Cutuli, quella che qualche anno dopo sarà assassinata in Afghanistan. Tra le sue interviste, si ricorda quella con la giornalista russa Anna Stepanovna Politkovskaja, poco prima d’esser giustiziata, vittima del coraggio nella testimonianza.