Te lo dico con gli occhi: quanto ci manca la stretta di mano

Mi capita in questi giorni di sentire un po’ il peso della mia sensibilità, e un po’ di colpa. Come se fossi arrivata al limite, come se non potessi più sopportare di “sentire” o di “compatire”. Per uscirne mi sono dovuta inventare un modo per essere presente. Così mi sono svegliata presto, ho impastato le sfoglie e il pane e ho portato pane fresco ai miei anziani vicini e i croissant ad una mia amica che lavora al Pronto Soccorso, nel reparto Covid. Mi sono sentita viva, bene. Credo lo farò anche domani”

Testimonianza di una studentessa volontaria

Maria Cristina Parrella*

“Buonasera signor Gigi, le presento il signor Pino” e segue stretta di mano, con un bel “piacere, molto lieto”.

“Bene, allora come d’accordo, ci vediamo lunedì prossimo per avviare i lavori” e segue stretta di mano a suggello dell’appuntamento.

“Carissimo! Come sta? Quanto tempo che non ci si vede!” e segue stretta di mano e, se la confidenza è tanta, anche un accenno di abbraccio.

Sembra passato tanto tempo, da quando abbiamo potuto stringere mani per sottolineare le varie occasioni. Sono trascorsi solo otto mesi.

In otto mesi abbiamo dovuto imparare a non toccarci più, a evitare di sfiorarci, a stare distanti almeno un metro.

Niente più abbracci consolatori e strette di incoraggiamento. Abbiamo dovuto imparare ad affidare allo sguardo il potere di trasmettere le nostre emozioni a chi ci sta di fronte. Col viso seminascosto dalle mascherine, gli occhi sono il solo tramite che abbiamo, tra il nostro cuore e quello dell’interlocutore. Fino ad otto mesi fa, gli occhi erano solo lo specchio dell’anima; ora sono diventati il messaggero a cui affidiamo le nostre intenzioni. E così abbiamo imparato a stringere le mani, con gli occhi; ad abbracciare, con gli occhi; a darci pacche sulle spalle, con gli occhi.

Con la mimica facciale ridotta, abbiamo imparato a pesare meglio le parole, per evitare fraintendimenti.

Con l’impossibilità di cingere gli altri in un abbraccio, abbiamo dovuto imparare ad affidare agli occhi e alle parole il compito di consolare, di manifestare affetto.

In pratica, abbiamo dovuto rivedere la nostra prossemica. Ci rimane la distanza intima che possiamo mantenere con chi convive con noi, ma la distanza personale, quella che normalmente riserviamo agli amici, ha dovuto cedere il passo alla distanza sociale, quella che di solito si osserva nel rapporto tra conoscenti o tra superiori e subalterni. Questa condizione ci ha indubbiamente spiazzati e, personalmente, ho notato come, non potendo avvicinarci, ci stiamo allontanando di più. E non credo sia solo per paura del contagio. Io provo come una sorta di imbarazzo nell’incontrare le persone a cui, fino ad otto mesi fa avrei stretto la mano o, magari, con le quali avrei scambiato anche baci sulle guance. Adesso mi capita di non sapere più come comportarmi. È come se dentro di me facessi una valutazione del tipo di rapporto che ho con la persona in questione. D’improvviso mi sono resa conto che probabilmente “prima” tendevo ad essere molto più fisica di quanto fosse necessario.

Torneranno di sicuro i tempi in cui potremo stringerci la mano ma, onestamente, non so più se distribuirò baci e abbracci con la stessa spensieratezza con cui lo facevo prima. Darò alle persone la giusta importanza, ma credo che manterrò una riservatezza di tipo orientale. Giapponesi e Indiani, per esempio, si salutano senza toccarsi, ma nel loro modo di salutarsi traspare tanto rispetto. Chissà, forse dall’Oriente, oltre al maledetto coronavirus, importeremo anche un nuovo modo di relazionarci con gli altri.

*Scrittrice per passione e per determinazione. Ama comunicare. Soprattutto asseconda la volontà di essere solidale e di far crescere la comprensione dell’Altro, degli Altri, soprattutto i più dimenticati e trascurati. Con la sua prosa porta parole di speranza, interpretando con sensibilità il presente. Sul tempo del coronavirus, ha realizzato un denso volume intitolato “Uscite di emergenza” (Linee Infinite Edizioni).