Un secolo di vita, un’eredità di memoria: il salto dal mondo contadino alla modernità

“Un paio di caldi calzerotti di lana può sempre servire, e poi non sono abituata a starmene con le mani in mano…”. Così si presentava e salutava nonna Elisabetta, centenaria.In vista – dopodomani – dell’8 marzo e della Giornata della donna proponiamo la testimonianza significativa di questa moglie-mamma-nonna che ha attraversato e vissuto un secolo, che ha camminato il Novecento, inoltrandosi per 21 anni del ventunesimo secolo. È mancata il 27 febbraio scorso, dopo aver tagliato il traguardo dei cent’anni all’inizio del 2021. La sua è una storia-simbolo, simile a quella di tante donne delle nostre Valli, con il balzo inimmaginato dalla civiltà contadina alla modernità, con tutte le straordinarie conquiste e anche i pedaggi da pagare al progresso, alla scienza e ad una tecnologia sempre più avanzate e al tempo stesso pluri-esigenti. Sacrifici e serenità, comodità e stress. Un’esistenza prima scandita dalle stagioni con i giorni feriali e quelli festivi, poi di colpo catapultata in un tempo dove molte “categorie” sono state spazzate via e ne vediamo gli effetti. L’intervista rilasciata in occasione del suo secolo di vita – con nonna Betta lucida e piena di ricordi – è un’eredità di memoria e un momento di riflessione. G.Z.

Anna Carissoni*

Nella sua antica casa in contrada Foppello, dopo il sonnellino pomeridiano e la merenda, assistita amorevolmente dalla figlia Teresa, nonna Elisabetta siede al tavolo della cucina e sferruzza di buona lena, ma accantona gentilmente aghi e gomitolo per raccontarci di sé, della sua vita, di come si viveva e di come è cambiato il mondo. Comincia dal passato prossimo: “Ho compiuto cento anni proprio il giorno dell’Epifania perché sono nata il 6 gennaio del 1921… Da allora il mondo è cambiato tanto, ma io sono ancora qui e sto bene, anche se non posso più uscire perché due anni fa mi sono rotta il femore”.

A dire quanto il mondo sia cambiato basti pensare che proprio durante la sua serena e lunga esistenza ha anche visto alternarsi nove Papi sul soglio di Pietro: “Non sono una tutta casa e chiesa, una che prega sempre, ma i Vescovi e i Papi li ricordo tutti –dice – e ascolto sempre la Messa e recito il Rosario alla televisione”.

La figlia Teresa annuisce, confermando che i programmi preferiti da Elisabetta sono quelli di TV 2000, sulla quale si sintonizza spesso.  Elisabetta è nata in una famiglia di allevatori in un paese in cui tutti o quasi, nel 1921, lo erano; ed è quarta di dieci fratelli.

Elisabetta Baronchelli
Quarta di 10 fratelli, nonna Elisabetta, un secolo di vita, si è sposata il 2 marzo 1957 con Faustino, marito morto il 31 dicembre 1992. Dal matrimonio ha avuto 3 figli, 7 nipoti e 3 pronipoti (un quarto pronipote è in arrivo).
Elisabetta è mancata il 27 febbraio scorso.

“E a 12 anni mi ritrovai a fare la servetta…”

Lei ha sempre preferito leggere e studiare: “Da piccola sognavo di fare la maestra, e imparavo bene Quando in paese arrivarono due signore di città – una di loro era una professoressa – e si fermarono a parlare con mio padre, pensai tutta felice che sarei andata con loro in città per studiare, ma quale fu la mia delusione quando invece capii che cercavano solo una servetta per la loro casa…”.

Elisabetta sembra voler scacciare quel ricordo con un gesto eloquente, quasi stizzito, delle mani, ma il giorno della partenza per la città ce l’ha ancora ben stampato nella memoria. “Quando giunsi a destinazione, con la prospettiva di far la donna di servizio, dentro di me piangevo e il mio pensiero era quello di scappare e tornare indietro… Ma poi immaginavo la faccia di mio padre e i suoi rimproveri, ne avevo paura e poi sapevo che per la mia famiglia era un sollievo avere una bocca in meno da sfamare… E così mi rassegnai”.

Elisabetta non aggiunge altro, si capisce che non è una persona abituata a parlare molto di sé né tantomeno a piangersi addosso, ma quel suo dolore di dodicenne evidentemente non l’ha mai dimenticato. In città rimane in servizio fino a 20 anni, quando suo padre muore e anche per lei si apre una nuova possibilità di guadagno:

Operaia in una fabbrica, come la gran maggioranza delle ragazze di qui. Partivamo a gruppi, le mie compagne scendevano dalle varie contrade. E al ritorno, dopo il lavoro, che belle cantate facevamo! Durante quelle lunghe sgambate cantavamo sempre, conoscevamo un sacco di canzoni, non bisognava stonare altrimenti erano rimproveri”.

La sua voce da contralto è ancora ben intonata, ricorda ancora i testi dei motivi che cantava. Una passione che evidentemente ha trasmesso anche ai suoi cari, perché la mattina del 6 gennaio, dopo la S. Messa, i parenti l’hanno festeggiata, cantando sotto la sua finestra le sue canzoni predilette. E il canto le ricorda anche un’altra occasione piacevole della sua infanzia: “Quando prese Messa mio cugino don Stefano, gli facemmo una bella festa qui in paese e io, che avevo undici anni, fui incaricata di recitargli la poesia, come si usava allora”.

Anche qui Elisabetta comincia a recitare con trasporto: un discorso pieno di enfasi e di termini aulici, in linea con i gusti letterari un po’ retorici dell’epoca, e anche stavolta non sbaglia una parola. Ad ascoltare c’è anche Fausto, il più giovane dei suoi nipoti: quando è libero dallo studio viene spesso a farle compagnia. Fausto si è da poco laureato in medicina, si sta specializzando in Radiologia, e ascolta con un sorriso un po’ sornione la declamazione della nonna, ma è un sorriso da cui traspaiono anche l’ affetto e l’ ammirazione.

La mamma ha sempre amato molto la lettura – mi spiega la figlia Teresa – anche adesso legge regolarmente i giornali, vuole essere informata di tutto quel che succede, ed è molto orgogliosa dei suoi nipoti che hanno potuto studiare fino alla laurea”.

“La dura vita dell’alpeggio, sempre ai quattro venti…”

Elisabetta si sposa relativamente tardi, nel 1957, con Faustino, anche se forse non è proprio il matrimonio dei suoi sogni perché il marito fa l’allevatore: “Io a quella vita non ero abituata, fino ad allora avevo fatto la serva e l’operaia… E infatti l’anno più brutto della mia vita è stato quello dell’alpeggio, sempre ai quattro venti, a dormire nel fieno, coi bambini piccoli, Stefano, Teresa e Andreina, il bestiame da accudire, le vacche, le capre, e tutti gli altri lavori da fare…”.

Mucche in montagna
Sono in molti ad aver conosciuto – magari attraverso i racconti dei nonni – la dura vita dell’alpeggio, con fatiche da stelle a stelle, disagi a non finire, come il dormire ai quattro venti, pascolare le mandrie, mungere, lavorare il latte. E poi falciare l’erba da portare nella mangiatoia della stalla oppure da far essiccare fino a che diventa fieno, e mille altre faccende quotidiane. Chi vuol farsi un’idea, legga “Il fondo del sacco” di Plinio Martini.
(foto: Jo Locatelli)

Una vita faticosa sulla quale però Elisabetta non si sofferma più di tanto e che comunque, a detta di Teresa, non l’ha mai indurita e non ha intaccato il suo carattere fondamentalmente positivo ed ottimista:

Non ci ha mai fatto pesare la sua stanchezza né le sue preoccupazioni, non ricordo che ci abbia mai sgridato più di tanto, né tantomeno picchiato, anche se a quei tempi i genitori erano solitamente molto rigidi con i figli e spesso non lesinavano in punizioni molto severe…”.

Forse è anche per questo che nonna Betta, rimasta vedova nel 1992, non è mai sola: a parte la figlia Teresa che si occupa quotidianamente del suo benessere, ci sono gli altri figli e i nipoti che vengono spesso a trovarla, si fermano a farle compagnia e ad ascoltare i suoi ricordi. Da trasmettere, pensiamo, anche ai tre pronipoti ed al quarto che arriverà a breve.

Ma anche per i pochi momenti che la lasciamo sola la nonna non si lamenta, trova sempre qualcosa di cui occuparsi, la lettura, il lavoro a maglia, le preghiere….Il suo carattere forte continua a sostenerla ed a farle apprezzare la vita”.

Mentre di ritorno varco il massiccio portone della casa, che ha resistito indenne alla modernità dei restauri e delle ristrutturazioni, non posso non pensare a quanto don Stefano, prete suo cugino, ha scritto della pietà popolare della sua gente, “capace di generosità e di sacrificio, di pazienza, di senso della croce nella vita quotidiana”. Mi pare che in questi tratti si possano ‘rispecchiare’ anche i cento anni di vita di nonna Betta, a patto di aggiungervi la forza d’animo e il coraggio nell’ affrontare difficoltà e disagi per noi oggi inimmaginabili. E senza mai perdere la voglia di cantare.

*Insegnante e giornalista, collabora a testate italiane e svizzere, occupandosi con passione della difficile realtà educativa del nostro tempo e dei problemi del vivere in montagna. Le sue numerose pubblicazioni dedicate a questi argomenti hanno tutte lo scopo di favorire l’approfondimento, la riflessione ed il ragionamento critico, finalizzati alla consapevolezza ed all’impegno sociale e civile.

Anna Carissoni