Un secolo fa come oggi nasceva Nino Manfredi. I suoi film, stelle che illuminano il firmamento della vita

Ha fatto film che hanno punteggiato epoche diverse, il percorso del passaggio dalla civiltà contadina alla modernità. Ha saputo interpretare il presente e il futuro con la sua bravura, la sua arte. Film che aiutavano a leggere e a capire la vita nella gioia, nelle fatiche, nelle attese, nelle speranze, nell’inseguimento di quel traguardo che si chiama felicità. Era un diffusore di serenità, allegria, divertimento. Un attore, regista, sceneggiatore speciale.
Si chiamava Nino Manfredi.

Giuseppe Zois

Castro dei Volsci, 22 marzo 1921: nasce Saturnino Manfredi, che poi sarebbe diventato Nino per tutti. Un secolo fa: un tempo lungo e breve, con la velocizzazione che la modernità ha imposto anche all’orologio. È un anniversario che non si può lasciar passare inosservato. Il popolarissimo attore si è ritagliato – con la sua genialità e la sua bravura – un posto di primo piano nella storia del cinema italiano. E i suoi film illuminano un firmamento ricco di stelle quanti sono i titoli della sua lunga carriera. Oltre che attore, Nino è stato anche sceneggiatore, regista, comico, cantante e persino doppiatore. Di più: eclettico com’era, ha saputo dare un tocco di originalità alla pubblicità, personalizzando in maniera inconfondibile il messaggio di cui è stato promotore per decenni, legandovi la sua identità: il caffè Lavazza. Chi non ricorda la sua famosa frase conclusiva? “Il caffè è un piacere; se non è buono, che piacere è?” con la sfumatura del suo gradevole accento romano… Nino Manfredi ha segnato più di 60 anni di spettacolo e l’ha fatto con la sua solarità, con il suo ottimismo, con la leggerezza in cui sapeva avvolgere la vita. Condiva tutto con ironia, sarcasmo, sottigliezza, pronto nelle battute e nel cogliere le situazioni. Con il suo incontenibile umorismo trasmetteva simpatia e calore. Se poi lo si portava su aspetti e questioni del vivere, sulle cose che contano e sui valori, veniva fuori la sua grande umanità.
L’ho visto al cinema e a teatro. Tra le centinaia di interviste che ho fatto a personalità e personaggi di ogni risma, quasi santi (poi già divenuti tali) e briganti (rimasti fedeli a se stessi), Nino Manfredi era uno che poi ti colpiva per una somma di qualità che facevano il suo straordinario carisma.
Riporto qui di seguito i passi salienti di una lunga intervista realizzata per un viaggio-inchiesta nelle esperienze di malattia e sofferenza, poi confluite nel libro “La notte dei girasoli”, Gribaudi Editore.

Nino Manfredi - Per grazia ricevuta
Nino Manfredi in una scena di “Per grazia ricevuta” (1971)

Cagionevole di salute, dato per spacciato tre volte. Alla laurea in giurisprudenza preferì la ribalta

Se c’è una parte che Nino Manfredi ha cominciato prestissimo a recitare, vivendola, è proprio quella del dolore. L’attore esordì nell’infanzia con questo copione. Già il bambino, poi ragazzo e adolescente Nino era stato dato per spacciato. Per ben tre volte. La prima per un’entercolite a tre anni, poi rischio di andarsene con la difterite e infine arrivò sulla soglia dell’aldilà con la tubercolosi. Erano anni magri, non si mangiava tutte le volte che la fame si faceva sentire. Nino finì al sanatorio.«A 15 anni mi ammalai di TBC. Mi diedero due mesi di vita e mi misero al sanatorio Forlanini, sbattuto in una camera ultimale. Non mi impressionai. In tre anni là dentro li vidi morire quasi tutti. Un giorno finalmente mi cacciarono fuori, perché divenuto negativo e perché c’era bisogno di posti. Avevo 18 anni e me ne prospettarono altri 4-5 di vita al massimo. Mi sentii come un alieno: non lo potevo dire a nessuno, perché mi avrebbero emarginato e costretto a vivere come un monaco».
Fu così che suo padre decise una strada che poi il figlio si premurò di lasciare ben presto, perché la sua vocazione era un’altra. Non si laureò in giurisprudenza – professione che gli avrebbe garantito una vita tranquilla – preferì la ribalta.
Prima però dovette superare non poche traversie, a cominciare da quando dovette salvarsi dai tedeschi. Mi raccontò: «Un giorno fecero una retata a Roma. Stavano perdendo la guerra e avevano bisogno di forze. Riuscii a scappare, per fortuna mia. Corri, corri, corri, trovai un portone aperto. Era una casa di tolleranza. Gridavo: “Aiuto, aiuto, i tedeschi!”. Entrai in una stanza dove c’era una ragazza discinta che si stava dipingendo le unghie. Quella ragazza scese dal letto, mi prese per una mano, aprì la finestra e mi fece uscire, chiudendo subito la persiana. Mi ressi forte, grazie anche ad un cornicione e senza guardare in basso. Stavamo al secondo piano. Sentii arrivare i tedeschi. Lei assicurò che non c’era nessuno. Dopo mezz’ora, quando la ragazza mi fece rientrare, crollai. Fu lei ad assistermi con premure mai viste e fu a lei che confidai, per la prima volta, la mia malattia. Nacque una storia d’amore dolcissima. Era una piemontese, cacciata da casa perché ragazza madre. Era finita a fare quel mestiere per mantenere il figlio affidato a contadini. Io le feci conoscere Roma, per lei sconosciuta, le basiliche, il Colosseo, Piazza Venezia. Per me era la più pura di tutte, stupenda. Mi dava soldi perché mangiassi, ma con una delicatezza unica. Un giorno mi chiese se fossi un pederasta. Non avevo mai sentito quella parola. Le risposi che non lo sapevo. E lei: “Non mi hai mai chiesto di fare all’amore”. Le replicai: ma io sono innamorato di te, sei la donna più bella che ho fin qui conosciuto, mi interessa il tuo animo, voglio sposarti. Con una sottile, amara ironia, mi disse: “Nino, non mettiamo insieme le nostre disgrazie”. Poi arrivarono gli americani, non la vidi più. La cercai per dieci anni, anche a Torino. Ho trovato mia moglie, una donna straordinaria».
Nacque la commedia “Gente di facili costumi”, una storia vera, vissuta, amara e lieta.

E Comencini gli disse: “Solo tu puoi parlare con un pezzo di legno come fosse un bambino”

Un impegno epocale fu il ruolo di Geppetto nel Pinocchio televisivo. Quando Comencini lo chiamò, gli disse: «Solo tu puoi parlare con un pezzo di legno come se fosse un bambino».
Nino metteva in cima alla classifica dei vizi che più detestava l’intolleranza che già allora – parliamo del 1995 – stava crescendo robusta: «Ne siamo sempre più assediati, ma non mi rassegno. Lotto contro gli intolleranti, che non sanno amare la libertà. Detto questo, preciso che io preferisco chi ha i vizi rispetto ai virtuosi ad ogni costo».

Nino Manfredi - Le avventure di Pinocchio
Nino Manfredi è Mastro Geppetto ne “Le avventure di Pinocchio”, sceneggiato televisivo di Luigi Comencini del 1974.

Sensibilizzare e responsabilizzare erano le sue parole d’ordine: «Stimolare la creatività, la fantasia, la ricerca, fare qualunque cosa, ma per dare forza alle parole e ai fatti. Basta chiacchiere». Si confessava preoccupato dei nuovi modelli educativi: «Stiamo tradendo l’innocenza e la purezza dei bambini. Penso ai miei nipotini. La televisione ha delle grandi colpe, tutti ‘sti giochini idioti. Livello culturale zero. La gente si abitua a credere che bisogna indovinare per vivere. La TV è la maggiore colpevole del nostro decadimento. Non fa mai teatro, per esempio. Io incontro giovani che non sanno chi è Pirandello: e si danno un sacco di arie. Vogliono solo apparire, sotto non c’è niente».
Un’interminabile fiction che stravolge la realtà. «Non si può continuare con l’offensiva di violenza e di morte che gronda dai teleschermi a ogni ora e da tutti i canali. Chi vede, se non ha qualcuno con cui dialogare per sdrammatizzare e se non ha avuto un’educazione, sarà indotto a fare altrettanto. E infatti leggiamo ogni giorno cronache incredibili. Una volta non m’ero accorto che la mia nipote maggiore, di 8 anni, stava seguendo un film con armi a tutto spiano. La ripresi, osservando che non poteva guardare quelle scene spaventose. Lei mi ribatté: “Non è vero, nonno. Lo vedi questo signore che uccide? In un film di due giorni fa gli avevano sparato ed era morto, ma adesso è ancora vivo”. Pensa che sconquasso mentale. Molti bambini si convincono che sparare è un gioco. Poi succede quel che succede».
Con sua figlia, Nino aveva girato un film in cui interpreta la parte di un certo padre. Si intitola “Colpo di luna”, una storia di incomprensioni, di dolore, di incomunicabilità. Gli chiesi se avesse qualcosa da farsi perdonare… «La pellicola – fu la risposta – tratta di malati di mente, di ragazzi psicotici e io faccio il padre di un ragazzo. È un film pieno d’amore di un padre che ha trascurato questo bambino che mi dà dal “lei” e non mi ama. Involontariamente mi manda in punto di morte, facendomi cadere da un tetto. In ospedale padre e figlio si incontrano e si capiscono, in un finale muto, di rara intensità emotiva».

Nino Manfredi - Colpo di luna
Nino Manfredi in “Colpo di luna” del 1995

«La mia più grande paura? Se avessi un crollo, l’idea di dover vivere e non esistere»

Nino Manfredi in un’immagine del 1990

Ricordo che ad un certo punto dell’intervista gli posi una domanda che poi m’è ritornata spesso nella mente e continua a ripresentarmisi ogni volta che si parla di lui o mi si accende un suo ricordo. «Nino, che cosa temi davanti al futuro?».
Aggrottò un po’ le sopracciglia, rifletté un attimo, poi mi confidò: «Il rimbambimento senile. Se ho un crollo, ho il terrore di diventare un attrezzo. È terribile dover vivere e non esistere». E fu proprio questo, in certa misura, il suo destino: costretto su una sedia a rotelle per un ictus che lo colpì (Nino morì il 4 giugno 2004).
Gli accennai anche alla condizione della solitudine, sempre più invasiva nella società d’oggi. «Non ci penso nemmeno – replicò –: ho una famiglia meravigliosa. Ho una moglie che mi vuole bene, tre figli che amano stare con me, quattro nipoti che mi adorano, perché mai dovrei pensare alla solitudine? Ogni tanto sono io che vorrei un po’ di solitudine. Per scrivere le mie favole».
Dopo una breve pausa, soggiunse: «Mi piace raccontare favole e nella vita bisogna inventarne ogni giorno. È la cura migliore per restare giovani e non farsi scalfire dai veleni. Dobbiamo ritrovare la voglia di sognare, sconfiggendo la logica del profitto, dei soldi, del dio denaro. Oggi il mio passatempo preferito è scrivere favole».
L’intervista andava avanti libera, spontanea, con scenette mimate e con profondità di argomenti e riflessioni all’occorrenza. Azzardai: Nino, provi dei rimorsi?
«No, quando arriverò dal Padreterno gli dirò: “Sono stato onesto, non ho mai rubato, ho sposato una donna da 40 anni e le sono stato fedele, sono sempre stato un buon padre di famiglia e soprattutto ho fatto nascere sulla bocca della gente il sorriso. Spero che basti. Ho anche salvato un bambino dalla morte. Era in coma profondo e andavo a parlargli tutti i giorni perché i genitori mi avevano detto che era un mio ammiratore e il primario mi aveva chiesto di stargli vicino e di fargli sentire la mia voce. Facevo Geppetto, “Pane e cioccolata”, “Per grazia ricevuta”… Quel bambino rinacque alla vita. Dopo che il Padreterno avrà finito con le sue domande, sarò io a interrogarlo un po’. Gli domanderò dov’è stato per tutto questo tempo, mentre il mondo era sotto un’ondata di dolori, di sofferenze, di morte. Perché non ha fatto niente per metter fine agli orrori infiniti del mondo?».
Arrivati al termine di una favola, generalmente si tira una morale. Sul dolore quale messaggio si sente di lasciare, buttai là all’attore.
«Guarda, ti dico che aveva ragione mio nonno, che fu un genio, anche se analfabeta. È stato il mio più grande maestro. Ha sofferto molto, per 32 anni fece l’emigrante in America, lontano dagli affetti più belli e caldi. “Tutto nasce dal dolore – ripeteva – dal benessere non nasce niente. Anzi, dal benessere viene solo il vizio”. Pensiamo alla droga. Quando uno non deve pensare come guadagnarsi da mangiare per il giorno dopo, come procurare di che vivere alla famiglia, è arrendevole con gli avventurieri di turno. Ho avuto la fortuna di grande maestri come Silvio D’Amico, Orazio Costa, ma più grande di tutti è stato mio nonno. “Le cose bisogna ragionarle”, era il suo ritornello. Come aveva ragione!».