In gennaio e febbraio poi fioccavano anche le feste, messe lì perché a casa c’erano anche loro, prima del triste ripartire per la nuova stagione da vivere sotto la pungente bise della Brévine. “Santa Lucia dai begli occhioni per trovarsi, Sant’Antonio dei bomboni per portare i biscotti e i confetti ai suoi di lei, Sant’Apollonia dei lacrimoni per lasciarsi”, scrive Alberto Nessi in “Terra Matta”.
STAGIONI, FESTE, USANZE ALL’INSEGNA DELLA SAGGEZZA E IN UN CLIMA SERENO
Gianni Ballabio*
La cucina d’inverno era il luogo più abitato e vissuto, perché il riscaldamento centrale era roba da fantascienza. O camino o stufa o entrambi: in funzione sempre. La legna arrivava dalla valle. Scendevano a piedi sull’alba con il mulo, ammucchiavano sull’aia, una tappa per il bicchiere e risalivano sonnecchiando sul carretto, tanto il mulo sapeva la strada a memoria, per ricaricare e ripartire il giorno dopo. La stufa, con cerchi e sportelli era tutto: per riscaldare, far da mangiare, avere sempre acqua calda. Anche per la “büiot” che si metteva nel letto, perché le stanze di sopra (troppo impegnativa allora la parola camera) erano di gelo. Se però vi passava il tubo del camino un po’ di calore veniva assorbito e faceva bene.
Niente lavatrice, ma acqua del vicino torrente o della fontana: anch’essa gelata. E quanti geloni per quelle povere mani mai stanche.
I ragazzi aspettavano la neve come una provvidenza. Quando arrivava era una festa, mentre l’intero villaggio diventava diverso, come ovattato in quel grande silenzio di mistero. Si improvvisavano slitte (non tutti potevano permettersi quelle coi pattini e il “sedile” listato con la scritta “Davos”), si inventavano sci (listoni di botti coi piedi infilati in rudimentali “staffe” ricavate dai copertoni consumati delle bici), si fabbricava la “grèeca” (bastava un asse e due tronchetti), mentre ogni discesa era buona. Se poi la neve gelava, si filava ancora meglio. Da mozzafiato, finendo nel mucchio lasciato dalla calla ancheggiante trainata dai buoi.
Si “slittava” pure sulle strade, tanto di macchine nemmeno l’ombra in quel grande silenzio. Ai piedi i zucurot: scarponi con la suola di legno. Freddi, gelati, ma duravano una vita.
Mentre piccoli e ragazzi giocavano (battaglie, pupazzi con occhi di carbone e una carota per naso, slittate a non finire), gli uomini spalavano per farsi strada dalla casa alla stalla, sentendo che quella neve era pur sempre benedetta. “La nev da genèe la impienis ul granèe” e “invernu senza nev, està senza bev”. Riposava anche la terra e il caldo della stalla contrastava il freddo di fuori, in quella pace di silenzio. In alto i fili della luce, pure loro bianchi e senza rondini, sembravano filari di festa.
I mesi della potatura e i giorni del Carnevale
Poi gennaio e febbraio per il contadino erano i mesi della potatura invernale, quando tirava il vento e le mani si facevano di ghiaccio. Qua e là qualche timido bucaneve rivelava che sotto la terra la vita stava germogliando ancora, come una promessa.

“Man disgagiaa/ che pòda/ vidàsc serpentaa,/ segunt i criteri, / la scöla di vecc”, scriveva ancora Giuseppe Arrigoni in quel suo aspro e dolce dialetto, dove anche le “parole” sembrano diventare cose. Quel potare era essenziale e l’annata della vite sarebbe dipesa anche da quel lavoro con le mani sovente portate alla bocca per cercare nel fiato un po’ di caldo. L’aria pungeva, le giornate si allungavano e contro le montagne l’orizzonte era così limpido da far quasi nostalgia.
“Salas che strenc,/ franch,/ insema ai fraschett,/ ai cò da la tròsa,/ ul lìgam,/ ul piasé da vütass/ di düü regiuu,/ vün par l’oltru”. Dove le parole diventano sintesi d’un’intera civiltà. Il pensiero già correva all’estate e al futuro di quella vigna, quasi fosse un bambino da preparare alla vita e alle sue durezze e asperità. Perché la grandinata vigliacca poteva sempre arrivare a rovinare tutto. Così non mancava, per devozione o scaramanzia o entrambe, un “Patèr a Quell sü/ da sura di copp,/ padrùn di tempest”.
Molto atteso era il Carnevale, pure questo un lungo periodo di festa, soprattutto per piccoli e ragazzi, che andavano in maschera di casa in casa, rimediando soldini e biscotti. Allora non si noleggiava il costume, ma lo si improvvisava senza tante storie, con scampoli di stoffe e mezzi stracci. L’importante era non farsi riconoscere. Si andava in banda e gli scherzi abbondavano, per lo più innocenti e senza cattiveria. Ma guai andare oltre il campanone che annunciava l’inizio della Quaresima. Se si era ancora in maschera, la si toglieva immediatamente a quel primo rintocco. Non si poteva sgarrare. Mentre la primavera era ormai dietro l’angolo.
* Gianni Ballabio è nato come comunicatore, vocazione che ha coltivato e sviluppato in continuazione: non si è mai fermato nelle posizioni – pure ragguardevoli – che ha raggiunto. Dapprima è stato docente di scuola media, poi è diventato direttore della scuola media di Balerna e, in parallelo si è pure impegnato in politica, al servizio della sua comunità, a Morbio Inferiore, e per la Diocesi di Lugano. Ha comunicato con molti linguaggi, considerando di volta in volta i diversi destinatari: gli allievi, i lettori di giornali e riviste con i quali ha collaborato e continua a farlo, fino al teatro, autore di molti testi messi in scena. Possiede un linguaggio che raggiunge il lettore e lo spettatore, con perfetto mix di intelligenza e sensibilità.